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TESEO L'OBBLIGO DI DONARE: DALL'ELEMOSINA ALLA RELAZIONE D'AIUTO. Operatori e volontari nei servizi per senza dimora a Torino Di Sara Enrici Vaion Il termine “dono”, tanto diffuso nel linguaggio comune, è usato spesso con imbarazzo nelle scienze sociali a causa della sua “opacità”. Si tratta di un concetto ambiguo, perlopiù associato a sinonimi che, a ben vedere, si sovrappongono solo parzialmente, come donazione, dote, regalo, elargizione, elemosina, presente, offerta, sacrificio (Pavanello, 2008). Questa tesi è nata dalla volontà di rispondere a due necessità: fare chiarezza sul significato sociologico del dono e dimostrarne l’applicabilità analitica. Una delle premesse di partenza è la distinzione tra una definizione morale di dono in termini di “altruismo puro”, inteso come atto disinteressato, gratuito, unilaterale - talvolta persino “sacrificale” - e una definizione sociologica di natura relazionale, in grado di cogliere i meccanismi di reciprocazione e il ruolo che il dono gioca nella creazione e nel rafforzamento dei legami sociali. L’ipotesi teorica è che un’analisi delle relazioni d’aiuto attraverso il “paradigma del dono” permetta, innanzitutto, di far emergere aspetti che normalmente restano in secondo piano, ma che non per questo sono meno rilevanti, e in secondo luogo, di offrire un punto di vista diverso su caratteristiche note. La tesi si struttura quindi in due parti tra loro distinte ma complementari. La prima parte del lavoro è dedicata alla presentazione della “sociologia del dono”, attraverso una sintesi delle principali teorie riguardanti il dono, dagli studi antropologici sulle economie arcaiche alle moderne riflessioni sulle “economie del dono”. Dopo aver brevemente presentato il dibattito contemporaneo intorno al concetto di dono e le implicazioni della triplice obbligazione maussiana (donare, ricevere, ricambiare[1]), si è cercato di costruire un modello analitico delle dinamiche di dono, a partire proprio dai tre momenti-azione del dono: perché donare? Quali sono gli effetti del gesto oblativo? Cosa implica per il ricevente accettare un dono? Perché ricambiare? Quali sono i tempi e le forme che il controdono può assumere? Quali sono i nessi tra dono e legame sociale? Si è poi proceduto ad analizzare l’aspetto rituale del dono, presentando alcuni esempi di ricerche in cui sono stati analizzati i rituali di ospitalità e gli scambi di doni in occasione di due delle principali celebrazioni collettive e individuali della nostra epoca: il Natale e il matrimonio. Un piccolo excursus, inoltre, è stato dedicato al tema del dono come “questione di genere”, aprendo a spunti di riflessione rispetto ad alcune posizioni femministe di rivendicazione di una “economia del dono matriarcale”, in opposizione al “capitalismo patriarcale” (Vaughan, 2005). Un’ulteriore sezione teorica è dedicata alla forma di dono specifica dell’età moderna: il dono agli estranei, facendo riferimento nello specifico alla celebre ricerca sulle donazioni di sangue pubblicata da Titmuss nel 1970. Con questo lavoro l’autore intendeva dimostrare che, per il trasferimento di alcuni beni, dal valore simbolico oltre che materiale, il dono rispetto allo scambio di tipo commerciale è preferibile non solo da un punto di vista etico, ma sopratutto presenta una maggiore efficacia ed efficienza. Gli scambi che avvengono attraverso il mercato, la redistribuzione operata dallo Stato e il dono devono essere considerate come categorie distinte: sebbene siano in effetti ambiti che spesso si sfiorano, è tuttavia utile una distinzione analitica. Il dono agli estranei implica, quasi sempre, una componente etica e valoriale, riscontrabile innanzitutto nelle motivazioni dei donatori. Per questa ragione è necessario analizzare anche la “generosità”, che può essere spontanea, come nel caso dell’elemosina, o strutturata, come nel caso delle associazioni di volontariato. All’interno della cornice teorica brevemente richiamata, la ricerca empirica ha avuto come oggetto specifico l’analisi delle relazioni d’aiuto che hanno luogo nell’ambito della lotta all’esclusione sociale delle persone senza dimora, ponendo l’attenzione non tanto sul contenuto materiale della relazione, quanto sui “gesti”, sulle dinamiche relazionali che si sviluppano tra volontari/operatori e utenti. È stato quindi scelto un contesto emblematico della vita sociale urbana, ovvero quello in cui si concretizza l'aiuto alle persone in situazioni di estrema povertà, “senza dimora”. Infatti, nonostante i rapporti tra estranei in città siano correntemente definiti all’interno del registro della “disattenzione civile” (Goffman, 1981), questa pratica rituale appare più problematica allorché ci si trova di fronte a persone senza dimora, poiché essi, per la loro sola presenza visibile, turbano questo quadro (Gayet-Viaud C., 2010): spesso fermi in mezzo al movimento frenetico dei passanti, rompono le frontiere tra “scena” e “retroscena”[2] (Goffman, 1981). Di fronte ai senza dimora l’affermazione di un principio generale del tipo “bisognerebbe fare qualcosa” si rivela insufficiente e impotente, poiché quel “qualcosa” potrebbe essere potenzialmente immenso, nonché frustrante da raggiungere (Gayet-Viaud C., 2010). Per alcuni una soluzione si trova nel “fare qualcosa” attraverso l’impegno o il servizio in un’organizzazione che operi, con varie modalità, in quest’ambito. Come riscontrato da Godbout (2000), ma anche dalle interviste, per molti volontari, e talvolta anche per gli operatori sociali, ciò che viene donato è il proprio tempo libero, il proprio “investimento personale”. Sebbene la relazione oggetto di studio sia composta da due poli, la ricerca ha indagato unicamente quello rappresentato degli operatori sociali e dei volontari che operano nei servizi, pubblici e privati, della città di Torino e da ciò deriva il titolo della tesi “l’obbligo di donare”, ovvero come nasce e come si definisce il dono per coloro che offrono/investono il proprio tempo e le proprie risorse personali (intellettive e affettive) nelle relazioni d’aiuto con il prossimo, in una situazione caratterizzata da – apparente – assenza di controdono. Ciò che è stato principalmente considerato è il modo in cui “le don oblige celui qui donne” (Gayet-Viaud, 2010, p. 441): sembra infatti che tali doni, che potremmo definire di tipo altruistico, implichino per il donatore una sorta dipromessa a continuare a donare, a impegnarsi in quel legame, per quella persona. Trattandosi di una ricerca di tipo esplorativo, si è ritenuto opportuno utilizzare una metodologia di tipo qualitativo, che fosse in grado di cogliere le narrazioni, l’universo valoriale e le rappresentazioni dei soggetti coinvolti. Sono state condotte undici interviste discorsive alle quali è seguito un focus group, il cui scopo principale è stato osservare la formazione (o la ridefinizione) delle opinioni in un contesto collettivo, ridiscutendo anche alcune opinioni emerse durante le interviste. Attraverso il resoconto delle interviste e del focus group, si è cercato di cogliere, innanzitutto, gli aspetti motivazionali e di definizione di sé dei donatori –l’obbligo di donare; in secondo luogo, la definizione dell’altro, ovvero le rappresentazioni sociali dei “poveri” – (portatori dell’) obbligo di ricevere; infine, la percezione della relazione e di eventuali elementi di reciprocità – l’obbligo di ricambiare. Anello di congiunzione tra le due parti della tesi è la constatazione che “fare del bene fa stare meglio” e che ciò diventa spesso la motivazione principale per chi compie gesti altruistici. Questo fenomeno potrebbe apparire, a una prima lettura, espressione di un “narcisismo della generosità” (Manghi, 2007), ovvero frutto di motivazioni egoistiche che mascherano processi macrosociali di controllo e mantenimento delle distanze sociali. Tuttavia, da quanto emerso dal materiale empirico raccolto, la consapevolezza di tale pericolo sembra presente sia nei volontari che negli operatori, i quali sottolineano, d’altro canto, la necessità di forme minime di gratificazione come motivazione all’agire. “Fare del bene”, aiutare il prossimo anche se estraneo, non è vissuto come un sacrificio, bensì diventa una forma di autorealizzazione per i nostri soggetti, i quali trovano così coerenza tra i valori e le pratiche di cui sono portatori. Il dono di sé (in termini di tempo libero, emozioni, affettività, passioni, etc.) nelle relazioni d’aiuto non si caratterizza, dunque, come sacrificio, bensì in termini di investimentopersonale al fine di “arricchire” la propria vita. Da notare, inoltre, che ciò vale sia per chi opera all’interno di enti laici, che per chi è membro di enti a carattere religioso (i cui organismi caritatevoli sono storicamente connotati dallo “spirito di sacrificio”). Fonte principale di gratificazione è il riscontro di gratitudine nella persona che si cerca di aiutare, oppure il riconoscimento del proprio ruolo, ovvero sentirsi percepiti come “punti di riferimento”. Le relazioni d’aiuto si caratterizzano così come relazioni reciproche, al cui interno circolano doni sia di tipo materiale che immateriale. Anzi, si è notato che spesso sono proprio gli utenti a fare veri e propri regali, attraverso i quali si esprime non solo il riconoscimento dell’educatore o del volontario, ma ci si presenta come persona degna di donare, riequilibrando (ritualmente) una relazione potenzialmente asimmetrica. Se, dunque, da un lato, per operatori e volontari sembra non solo inevitabile, ma anche fonte di appagamento, il donarsi nelle relazioni d’aiuto, dall’altro lato, emerge l’importanza anche per gli utenti di poter donare a loro volta. Accettare i doni degli utenti significa riconoscerli come persone e non solo in riferimento alla categoria di assistiti o di poveri. Anche concedere l’elemosina rappresenta una risposta all’obbligo di donare suscitato dal percepire lo stato di bisogno altrui, tuttavia si tratta di un gesto che crea disagio, imbarazzo. Alcuni intervistati hanno sottolineato l’impersonalità dell’elemosina, che non solo non è realmente utile a chi la riceve, ma non crealegame. L’elemosina rappresenta una sorta di perversione del dono, che per contrasto ne fa emergere le caratteristiche fondamentali: l’attenzione a che la cosa donata sia gradita (o utile) al ricevente, l’interesse al legame, la presenza di un controdono “differito e differente”. Complementare a tale lavoro (e auspicabile per il futuro) sarebbe l'indagine di questi stessi aspetti tra coloro che ricevono l’aiuto. Infatti, se è vero che tutti i doni devono venire accettati per essere tali, ce ne sono alcuni la cui accettazione ha un valore simbolico estremamente profondo, soprattutto per il ricevente. Tuttavia, sia per la delicatezza dell'argomento, sia per la mancanza (durante la fase di progettazione) di contatti diretti, si è scelto di limitare l’indagine a un solo polo della relazione, in modo da avere successivamente basi più solide su cui articolare un’eventuale successiva indagine. In chiusura è bene sottolineare che la presenza del dono all’interno delle relazioni d’aiuto non toglie che debba essere data centrale importanza dei dirittidelle persone assistite: il dono caratterizza il gesto e non il contenuto, il modo in cui vengono personalmente vissute le relazioni e non i servizi in sé. Non è stato, dunque, messo in discussione la distinzione tra “elargizione generosa” e diritto al welfare, bensì si è cercato di spiegare alcuni aspetti delle relazioni d’aiuto attraverso il “paradigma del dono”, proprio al fine di rendere più accessibili tali diritti. [1] Il principale riferimento sono i lavori di Godbout (1993; 1994; 2000), il quale svolge da anni un inteso lavoro di ricerca empirica e analisi critica della letteratura al fine di dimostrare e analizzare la presenza del dono nella società moderna. [2] Uno degli aspetti della vita in strada è proprio la difficoltà di costruirsi spazi privati, con una conseguente progressiva perdita del senso del pudore (Meo 1998; 2000). Riferimenti bibliografici: Gayet-Viaud C. (2010), Du passant ordinaire au Samu social: la (bonne) mesure du don dans la rencontre avec les sans-abri, «Revue du Mauss», n. 35, pp. 435-453. Godbout J. T., Charbonneau J. (1993), La dette positive dans le lien familial, «Revue du Mauss», n. 1, p. 239-256. Godbout J. T. (1994), L’endettement mutuel, in «Revue du Mauss», n. 4, pp. 205-219. Godbout J. T. (in collaborazione con Alain Caillé) (2000), L'èsprit du don, La Découverte, Paris (ed. or. 1992). Goffman E. (1981), Relazioni in pubblico. Microstudi sull’ordine pubblico, Bompiani, Milano (ed. or. 1971). Manghi B. (2007), Fare del bene. Il piacere del dono e la generosità organizzata, Marsilio, Venezia. Meo A. (1998), Il senza casa: una carriera di povertà. Osservazione sul campo a Torino, in «Polis», XII, pp. 241-261. Meo A. (2000), Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Liguori Editore, Napoli. Pavanello M. (2008), Dono e merce : riflessione su due categorie sovra determinate, in Aria M., Dei F. (a cura di), Culture del dono, Meltemi, Roma. Titmuss R. M. (1970), The Gift Relationship from human blood to social policy, George Allen & Unwin, London. Vaughan G. (2005), Per-donare : una critica femminista dello scambio, Meltemi, Roma (ed. or. 1997). |
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