Scheda Biografica
Nato a Poli, vicino a Roma, Michelangelo Conti discendeva dalla nobile famiglia dei Conti di Segni, alla quale era appartenuto un altro pontefice, Innocenzo III ed altri (Gregorio IX, Alessandro IV) gliene venivano attribuiti.
Michelangelo Conti, secondogenito d'Isabella Muti (non Monti) e di Carlo, duca di Poli, nasce in questa il 13 maggio 1655. Timbrato il natio borgo dal massiccio palazzo dei de Comitibus o Conti a visualizzare un multisecolare dominio signorile che affonda le sue radici nel Medioevo: titolare di piccole proprietà presso Segni Trasmondo, il padre d'Innocenzo III - gloria massima della famiglia questi; ma dalla stessa provengono pure i papi Alessandro IV e Gregorio IX; e alla stessa riconducibile un po' sinanco Bonifacio VIII, nipote del beato Andrea de Comitibus -, mentre suo figlio Riccardo è, appunto, investito dal fratello papa del feudo di Poli. E signore di Poli il senatore Giovanni Conti. E duca di Poli - per arrivare in tempi più recenti - il Torquato Conti che sposa Violante Farnese figlia naturale del duca di Parma Ottavio. E loro figlio quell'Appio comandante le truppe pontificie in Francia nel 1592-1593. E uomini d'armi i Conti che si distinguono nella prima metà del '600 - difensori di Praga dagli Svedesi un Torquato e un Innocenzo, mentre un altro Torquato, duca di Guadagnolo, è generale d'artiglieria attivo contro i Danesi e gli Svedesi durante la guerra dei Trent'anni - al soldo dell'Impero, non senza che ciò costituisca un elemento a favore di Michelangelo allorché la corte di Vienna dovrà ponderare l'opportunità di favorirlo nell'ascesa al culmine della Chiesa. Né, nel contempo, digiuni di lettere i Conti; e potrebbe essere il padre del futuro pontefice quel Carlo Conti che dedica al vescovo di San Miniato Alessandro Strozzi i propri Elegiarum libri duo (Florentiae 1641).
Destinato il primogenito Giuseppe all'eredità di titolo e feudi e al proseguimento della famiglia, quel che attende Michelangelo e, pure, il terzogenito Bernardo Maria è la carriera ecclesiastica. E affermato in questa lo zio paterno Giovanni Nicola - cardinale il 15 febbraio 1666 avrà dei voti nel conclave che eleggerà, il 21 settembre 1676, Innocenzo XI - presso il quale, vescovo d'Ancona dal 29 marzo 1666, Michelangelo fanciullo viene collocato. È, dunque, nella residenza vescovile anconitana che egli ha la sua prima istruzione, proseguita poi a Roma, nel Collegio gesuitico. Ipotizzabile, alla luce dei successivi atteggiamenti di Conti, l'esperienza della didassi dei padri della Compagnia di Gesù non sia stata, per lui, gran che positiva; azzardabile, allora, che già lungo questa nascano le premesse, quanto meno psicologiche, delle future diffidenza, scarsa simpatia e, poi, antipatia e, poi, ostilità manifesta. Comunque, alla formazione umanistica della "ratio studiorum", segue la laurea "in utroque" alla Sapienza, che - coll'assunzione degli ordini sacri - correda il giovane di tutti i requisiti per candidarsi all'affermazione nella Curia romana. Prima tappa dell'ascesa la nomina a cameriere segreto d'Alessandro VIII; e questi l'invia a Venezia latore, pel doge Francesco Morosini, del pileo e dello stocco (cioè del cappello e della spada d'onore di generale della Chiesa; "carico di perle", ma di scarso valore il primo; più apprezzata la seconda di 36 libbre d'argento dorato). Solenne, l'8 maggio 1690, la cerimonia di consegna nella basilica marciana: letto il breve papale dell'8 aprile, Conti, col nunzio Giuseppe Archinto, presenta il dono. Ed è lui (che il papa, nel qualificarlo, definisce "dilectus filius", "cubicularius noster" dotato di "praestantes virtutes atque animi dotes" nonché di prestigiosi natali) a pronunciare un elaborato discorso di circostanza ad elogio del doge campione della lotta antiturca.
Referendario, il 14 agosto 1691, d'entrambe le Segnature, il 17 dello stesso mese è pure nominato governatore di Ascoli. Segue, il 6 dicembre 1692, la designazione a governatore, da Frosinone, della provincia di Campagna e Marittima. Ulteriore promozione la nomina, del 6 maggio 1693, a governatore di Viterbo, che, colpita, nel giugno del 1695, da una forte scossa di terremoto, provvede a risollevare disponendo il restauro degli edifici lesionati e il ripristino della viabilità. Ma non ci rimane ché - nominato il 13 arcivescovo di Tarso - è a Roma che tale viene consacrato dal cardinale Galeazzo Marescotti il 26, essendo altresì, il 28, decorato del titolo di vescovo assistente al soglio pontificio. Nominato, quindi, il 1° luglio, nunzio in Svizzera, s'insedia a Lucerna il 7 settembre rimanendovi sino al 24 novembre 1697. Di nuovo a Roma, il 24 marzo 1698 viene preposto alla più prestigiosa Nunziatura di Portogallo. Raggiunta Lisbona il 5 giugno, Conti vi rappresenta la Santa Sede in un periodo contrassegnato dall'afflusso d'oro brasiliano, dall'intensificata coltivazione della vite, dal sagomarsi stesso dell'economia in funzione della domanda inglese. E sancito lo stretto legame coll'Inghilterra dal trattato commerciale del 27 dicembre 1703, conseguenza, peraltro, dell'adesione, del 16 maggio, del re Pietro II all'alleanza antiborbonica costituita dall'Impero, l'Olanda e, appunto, l'Inghilterra. Una autentica svolta questa della politica estera per cui il sovrano passa dall'iniziale sostegno a Filippo di Borbone a quello fornito a Carlo d'Asburgo. E in tal senso il nunzio s'è attivamente adoperato. Tant'è che - come annota ancora il 1° luglio 1701 il diarista Valesio - a Roma i cardinali francesi di lui si vanno lamentando; promosse, a loro dire, dal nunzio le "difficoltà" che i "ministri" francesi e spagnoli incontrano nella corte portoghese ogniqualvolta cercano d'ottenere da Pietro II una qualche "risposta positiva" ai loro "interessi". Colpa di Conti - protestano i porporati filoborbonici e antiasburgici - se il re non ascolta, non presta orecchio a quanto quelli chiedono. Nefaste le sue "persuasioni" in contrario. Né l'accusa è poi tanto esagerata se - come risulta da un "piego" di lettere dello stesso nunzio "intercetto" - egli, appunto, scrive che a Lisbona sta facendo "il possibile" per non far seguire la lega fra il Portogallo e la Francia e la Spagna. Sin orientante l'influenza di Conti se riesce a far passare il re sul fronte opposto. Ma, in fatto di "real padroado", non è che il nunzio riesca a smorzare l'ampia portata con cui l'intende il re. Apprezzato, in ogni caso, daClemente XI il suo operato e premiato, il 7 giugno 1707, col conferimento della porpora, cui s'aggiunge, il 24 gennaio 1709, il vescovato di Osimo. Un apprezzamento che va anche alla fermezza con cui egli si batte contro i riti cinesi, i quali, invece, trovano comprensione a corte ché efficaci ad allargare la penetrazione missionaria e, con questa, a consolidare le posizioni portoghesi. Energicamente contrastate da lui le giustificazioni della Compagnia e da lui fatte proprie le proteste del cardinale Carlo Tommaso Maillard de Tournon che a lui s'appella, nel gennaio del 1708, dal lontano "ergastolo" di Macao dove, sensibili alle trame gesuitiche e con queste conniventi, le autorità portoghesi di fatto l'hanno sequestrato. Durissime le rimostranze del nunzio a Giovanni V e non senza trapassare - al di là del dramma personale di Tournon - ad una offensiva contro la Compagnia accusata di sistematici intrigo e menzogna. E ha dalla sua la moglie del re, Maria Anna d'Austria, la figlia del defunto imperatore Leopoldo I, la sorella dell'imperatore Giuseppe I.
A Lisbona sino al 24 agosto 1710, quando ne parte prima dell'arrivo del successore Vincenzo Bichi nominato nunzio ancora il 27 settembre 1709, Conti rientra a Roma forte della designazione - che deve soprattutto alla regina - a protettore della nazione portoghese presso la Santa Sede. Un onore e, pure, un lucro che gli assicura una rendita di 6.000 scudi all'anno. Ciò - sempre che sia esatto quanto di Conti scrive riepilogando brevemente la sua vita antecedente al papato l'ambasciatore veneto Andrea Corner - sino al 1712. E poi - alla morte, il 18 dicembre 1714, del cardinale Cesare d'Estrées - la "protezione del re di Portogallo" la riassumerebbe con conseguente vantaggio retributivo. Nel frattempo, il 23 febbraio 1711, intitolato il suo cardinalato ai SS. Quirico e Giulitta e ribadito il suo profilo episcopale colla nomina, del 1° agosto 1712, a vescovo di Viterbo. E tale rimane sinché, il 14 marzo 1719, per ragioni di salute rinuncia. Più rilevante, comunque, di questo suo episcopato viterbese la sua presa di distanza dalla bolla - emessa l'8 settembre 1713 e pubblicata il 10; questa nel condannare centouno proposizioni delle Réflexions morales di Quesnel, di fatto condanna l'intera dottrina giansenistica - Unigenitus Dei Filius di Clemente XI. Agisce in lui la stizza del cardinale offeso dalla mancata consultazione del Collegio cardinalizio. Questo è stato scavalcato. E Conti eccepisce sul metodo. Ma il suo eccepire va oltre quando - forse orientato dal suo teologo di fiducia, il servita Gerardo Capassi - considera la bolla non tanto formulazione "ex cathedra", quanto sorta di giudizio personale sia pure del papa, in certo qual modo, allora, opinabile e, come tale, non vincolante le coscienze. Col che, rispetto alla bolla, il cardinale Conti quasi si defila, non senza che questo suo atteggiamento sia inteso e frainteso nell'affabulazione degli ambienti giansenisti e filogiansenisti a mo' di virtuale scelta di campo; al suo reagire dettato da spirito di corpo - quello dell'appartenenza al Collegio cardinalizio - vien fatto credito d'un sottinteso agostinianismo che, sommato all'intransigenza contro i riti cinesi manifestata in Portogallo, accosterebbe Conti proprio al giansenismo. E la sua estraneità alla pietà cristologica esasperata in chiave patetica sino a culminare nella liturgia della festa del Preziosissimo Sangue è travisata a mo' di conferma d'un suo schierarsi alternativo, che, di fatto, non c'è mai stato. Tant'è che - anche se tutt'altro che convinto della colpevolezza d'Alberoni - non è che, come membro della Congregazione che, riunitasi il 19 marzo 1720, si pronuncia, il 22, per l'apertura del processo a quello, manifesti le sue intime riserve.
Morto, il 19 marzo 1721, Clemente XI, arduo prevedere chi gli succederà, come constatano e gli osservatori e gli stessi partecipanti al conclave. Nemmeno "il partito de todeschi" - così il rappresentante della Serenissima Corner i cui dispacci costituiscono un attendibile rendiconto sull'andamento del conclave - si presenta compatto, "molto fortificato et unito". Sarà, allora, decisiva la "pluralità de voti de zelanti". Il 1° aprile, in prima battuta, sedici voti su ventotto vanno al cardinale Fabrizio Paolucci, già segretario di Stato del papa defunto. Sono molti, ma non bastano. Per vincere occorrono i due terzi dei suffragi. E a stroncare le speranze di Paolucci piomba il veto di Vienna di cui è latore il cardinale Michele Federico Althan. Nel contempo, già il 1° aprile, due voti vanno a Conti. E nelle votazioni successive - due al giorno, una mattutina, l'altra pomeridiana - il suo nome compare, sparisce, poi ricompare ora con un solo voto, ora, come nella mattinata del 14, con sette. Il che, se si considera che, nel frattempo, i votanti sono aumentati, non è gran che indicativo. Più sintomatica, invece, la costanza - anche se con qualche soluzione di continuità: nessun voto, ad esempio, nella mattina del 20, nel pomeriggio del 21 e in quello del 23 - del resistere e persistere del suo nome. Il 26 ha quattro voti il mattino, due il pomeriggio. Poca cosa, stando ai numeri. Però è proprio il 26 che Corner registra come "sopra il cardinale Conti si promosse una voce favorevole per lui di tutta Roma". Ancorché "effimera", è già un tratto distintivo. "In conclave" già s'appalesano i fautori di Conti. E tra questi colui che più esce allo scoperto è il cardinale Annibale Albani - quello che incamera il grosso dei 30.000 talleri francesi distribuiti dal cardinale Armando Gastone Massimiliano di Rohan; quello che più s'è affannato e più s'affanna per la concessione della porpora a Guglielmo Dubois (donde l'impegno scritto, da parte di Conti, in tal senso, "au cas", così Saint-Simon, sia eletto) -, anche perché interessato "a succedergli", a lui, a Conti "nella protezione di Portogallo per la quale contribuisce il re" Giovanni V "6 mila scudi annualmente".
Quasi spaventato - a questo punto - Corner da quel che va appurando, quasi sconcertato dall'intreccio di calcoli che non si levano un palmo da terra di cui è costretto a prender atto. E, quasi a metter le mani avanti con una preventiva dichiarazione di fede, eccolo allora assicurare che - checché vada scrivendo -, in ogni caso, "l'opera dello Spirito Santo" è indubbiamente attiva lungo il conclave, sicché "atterra ogni maneggio", scompagina calcoli, sconvolge disegni. Ma non è che sia visibile. Per quel che vede e sente e intende non gli resta che descrivere lo spettacolo offerto da oltre una quarantina di porporati che "studiano" sì "di fare il papa", ma, nel contempo, applicandosi "ad accomodar se stessi chi per la strada degli onori e dell'auttorità chi per posti lucrosi". E continuo allora il "maneggio" sollecitato da terreni appetiti che, ormai, tra fine aprile ed inizio di maggio, gira vorticoso attorno al nome di Conti. A lui ancora ostili gli "spagnoli"; a lui non favorevole il cardinale Francesco Acquaviva d'Aragona. È, invece, così Corner il 30 aprile, "portato" dai "todeschi" che lo ritengono "ottimamente inclinato all'imperatore", è "fiancheggiato dalli francesi", risulta "prescielto dalla maggior parte del partito dell'Albani". Ma dai voti ciò stenta a manifestarsi. Appena un voto a Conti il 4 maggio, sia di mattina che di pomeriggio. Che sia il suo? Nel frattempo Althan sta lanciando la candidatura del cardinale Francesco Pignatelli. Ancora manovre e contromanovre. Salta fuori come "causa di molto pregiudizio" per Conti il fatto abbia "numerose parentelle". Uomo, a detta di Saint-Simon, "doux, bon, timide", Conti "amait fort sa maison". E questa è - cogli Orsini, i Savelli, i Colonna - delle quattro più importanti a Roma. È imparentata a destra e a manca. C'è da paventare un papa nepotista o, quanto meno, pressato dai parenti, dalla clientela familiare. Nel frattempo s'ingrossa il corpo elettorale. I votanti - appena ventotto il 1° aprile - il 7 maggio sono cinquantaquattro. E Conti quel giorno non racimola che quattro voti la mattina e sei il pomeriggio. Ciò non toglie la vittoria sia certa. Anche Althan - che Vico, per piaggeria, trasformerà in suo promotore: mosso da "zelo di Dio e di Cesare" fa trionfare, "con gloria di Dio e di Cesare", il cardinale Conti, verseggia il filosofo - accondiscende, passa dalla sua parte. Sicché, all'indomani, l'8, al settantacinquesimo scrutinio è eletto papa, pressoché all'unanimità, con cinquantatré voti. Un voto - il suo, questa volta può permetterselo - va al cardinale decano Sebastiano Antonio Tanara. E, in memoria dell'avo Innocenzo III, il neopontefice adotta, appunto, il nome d'Innocenzo XIII. Esultante Corner annuncia alla Repubblica che, finalmente, "si è dato alla Chiesa il suo capo e padre comune [...] acclamato et eletto con tutti li voti". Palese - commenta - "l'opera dello Spirito Santo nel prescieglierlo ad un posto così eminente di vicario di Christo". Artefice - riepiloga - dell'elezione il cardinale Albani: "esce il nuovo papa", infatti, "dal numero delle sue creature"; una volta, spiega, caduta la candidatura di Paolucci, Conti è divenuto il "primo, anzi [...] unico soggetto de' suoi maneggi". Determinante, altresì, "la fazione de' todeschi", cui s'è aggiunta quella dei "francesi".
"Tutti parlano bene" del nuovo papa a Vienna, scrive da questa, il 24, Apostolo Zeno a Corner: "tutti", a Vienna, vanno dicendo che il "nuovo eletto" è "uomo franco e sincero, inclinato al ben fare a tutti, amante delle lettere" com'è desumibile, se non altro, dall'"assai buona libreria" da lui costituita. E fatto proprio anche da Zeno il giudizio della corte; anche pel poeta cesareo I. è "uomo da bene e lontano da ogni interesse e passione". C'è da sperarne "un felice pontificato". Non altrettanto speranzoso Muratori che - nello scriverne, già il 14, da Modena a Zeno - ricorda che pure in Clemente XI "letterato" s'era confidato: "poteva far tanto in pro delle lettere" e, invece, ha deluso; "nulla di grande ha fatto". Quanto ad I., "staremo a vedere se farà meglio". È Vallisneri quello che con più decisione si rallegra: "stimo assai il pontefice presente" - scrive il 28 da Padova lo scienziato a Muratori - se non altro "perché ha avuto petto di conoscere il cattivo genio di chi vi vuol poco bene e s'è levata una vipera dal seno". È chiaro: Vallisneri fa presente a Muratori che è proprio lui quello che dovrebbe gioire. Appena papa, I. ha allontanato di brutto Giusto Fontanini dalle "stanze" assegnategli "nel palazzo apostolico" dal suo predecessore, come, avvilitissimo, lamenta questi il 4 giugno in una lettera al cardinale Orsini, il futuro Benedetto XIII, che, suo protettore, una volta papa, lo risarcirà d'esser "stato licenziato" tanto bruscamente con un appartamento al Quirinale. Fresco autore di Della istoria del dominio temporale della Sede Apostolica nel ducato di Parma e Piacenza (Roma 1720), Fontanini non s'attendeva un "trattamento" del genere da Innocenzo XIII. Evidentemente questi ritiene controproducente il suo oltranzismo curialistico. Ed evidentemente da cardinale non ha gran che apprezzato la veemenza del suo polemizzare con Muratori. In disgrazia Fontanini per tutto il pontificato di papa Conti, trattato, protesta col cardinale Orsini, peggio d'un nemico della "Santa Sede" che, invece, "ha difesa senza rispetti umani". Ma se il dotto friulano ha di che piangere, l'Arcadia tripudia. Innalzato al culmine della Chiesa chi, ancora il 12 dicembre 1719, è stato acclamato arcade col nome d'Aretalgo Argireo. E in onore del neopontefice le celebrazioni arcadiche dei giochi olimpici dell'agosto 1721, nei giardini, all'Aventino, del principe Francesco Maria Ruspoli, arcade attivissimo, lo stesso che, ancora il 1° gennaio 1703, ha offerto un memorabile banchetto al connestabile Filippo Colonna e al fratello maggiore d'I. il duca di Poli Giuseppe Conti. E gran festa pure a Lisbona per una nomina fervidamente caldeggiata dalla regina; entusiasta il panegirico dedicato al papa, nell'accademia reale, dal conte d'Ericeira. E anche se Giovanni V non è accontentato nella sua immediata pretesa della porpora per Bichi, può un po' consolarsi coll'ingresso in Arcadia col nome d'Arete Melleo celebrato nel novembre del 1721. E arcade, ancora dal 1703, col nome di Ramiro Maiadeo l'ambasciatore di Portogallo, il conte das Salveas Andrea de Mello e Castro, il quale in onore d'I. fa mettere in scena, a palazzo Capranica, La virtù negli amori, un "componimento musicale" d'Alessandro Scarlatti realizzato con allestimento di Francesco Galli Bibiena.
Ma, oltre all'allontanamento di Fontanini, quali le altre prime mosse del papa incoronato solennemente il 18 maggio nella basilica di S. Pietro? rimosso dall'ufficio di segretario dei Brevi ai principi Giovanni Cristoforo Battelli e fatto arcivescovo, "in partibus", di Seleucia nonché nunzio a Napoli Vincenzo Antonio Alamanni, già segretario della Congregazione dell'Unigenitus e della Cifra. Una promozione rimozione nel suo caso. Morto, il 9 maggio 1721, il vicario di Roma cardinale Giovanni Domenico Paracciani, subito ricoperto il posto vacante dal cardinale Paolucci. Segretario ai Brevi il cardinale Fabio Olivieri; alla prefettura del Concilio il cardinale Curzio Origo; alla Dataria il cardinale Pietro Marcellino Corradini; alla Legazione di Bologna il cardinale Tommaso Ruffo, senza che debba rinunciare all'arcivescovato di Ferrara; maestro di camera Sinibaldo Doria. E teologo del papa non Capassi - all'ufficializzazione del suo ruolo consultivo s'oppongono i cardinali Francesco del Giudice e Lorenzo Corsini (il futuro Clemente XII) -, ma l'abate benedettino Leandro di Porcia (cardinale nel 1728), a suo tempo difensore del De ingeniorum moderatione in religionis negotio (Lutetiae Parisiorum 1714) di Muratori. Una scelta questa del teologo che un minimo autorizza a connotare le propensioni del papa. E, se così è, vien da dedurre che il mancato accesso, del settembre del 1721, al colloquio col papa di Paolo della Croce giunto ad implorare l'approvazione per l'Ordine - quello dei Passionisti - da lui fondato nel 1720 non sia limitabile al rifiuto del sorvegliante la porta sconcertato dai suoi stracci miserandi. Perché gli si dia attenzione occorre un altro papa, Benedetto XIII. E sbarrate, allora, di proposito le porte con I. al fondatore della Congregazione dei Chierici Scalzi della Croce e della Passione di Cristo. Non è che papa Conti ami circondarsi d'accesi mistici. Semmai preferisce i lumi dell'erudizione cattolica. Suo prelato domestico Francesco Bianchini, il dotto antichista, il cultore d'astronomia. E i talenti li preferisce impiegati; sicché sottrae al ritiro Domenico Passionei e lo nomina, il 18 giugno 1721, nunzio a Lucerna. Preposto alla carica più importante - quella di segretario di Stato - il cardinale Giorgio Spinola, con disappunto del cardinale Althan che avrebbe preferito vederla assegnata al cardinale Ruffo o al cardinale Giulio Piazza. "Inconfidente", in effetti, d'Althan Spinola, ma non sgradito a Vienna. Tant'è che la nomina è salutata con favore dall'ambasciatore straordinario al conclave Francesco Ferdinando Kinski e da Eugenio di Savoia. E se ne compiacciono pure i cardinali Alvaro Cienfuegos e Wolfgang Annibale von Schrattenbach.
Un esordio, a tutta prima, felice questo di papa Conti, con un nucleo di collaboratori rinnovato e "tutti" - così Corner - "pontuali nel loro impiego". Ma subito negativa l'eccessiva "confidenza" del papa - e in ciò gioca anche il rispetto pel fratello maggiore - nel duca di Poli, che, da un lato presuntuoso, dall'altro di nulla competente, si pavoneggia a suo mentore, a suo consigliere e ispiratore. E, anche per giustificare la sua costante presenza, eccolo nominato, nel novembre del 1721, "principe del solio". Poco male il titolo. Ma non innocuo nella misura in cui si fa contenuto, ché il papa - a mano a mano nelle udienze si stanca e le riduce - finisce, non senza che sorgano conflitti di competenza collo Spinola, a girare problemi e questioni al fratello, col dirottare a questo gli incontri coi diplomatici e i rappresentanti esteri. Sicché da un lato si gonfia il sussiego del duca, dall'altro si fa notoria la sua "renitenza" ad "entrare" concretamente "in qualunque negotio". È in ballo da un bel pezzo la pretesa di Bologna all'"introduttione" delle acque del Reno nel Po. I tecnici ne discutono da decenni. E I. non ha la lena d'occuparsene. E, dichiarandosi ignaro dell'argomento, non esita ad esortare l'ambasciatore veneziano Pietro Cappello a trattarne col fratello. Ed ecco che quello, nel colloquio con quest'ultimo, affronta lo spinoso argomento della paventata - non solo dalla Serenissima, ma anche da Modena, da Mantova e dalla stessa pontificia Ferrara - diversione. Solo che il duca di Poli subito lo zittisce dicendo che "non aveva alcuna cognitione di questo negotio". Così proprio quando è il papa a stabilire che l'"affare del Reno" è di sua pertinenza. Troppo riguardoso il secondogenito col primogenito per constatare la sprovvedutezza sin ridicola di questi. Comprensibile Spinola si irriti. Disturbante presenza quella del principe del soglio ai fini del funzionamento. Ma non per questo imputabile I. di favoritismo eccessivo. Non è che il duca di Poli s'arricchisca. Né, per quanto vagheggi l'"acquisto del ducato di Massa", il papa s'adopera per accontentarlo. I timori d'eccessi nepotistici avanzati all'affacciarsi della sua candidatura non è che si avverino. Concede sì la porpora, il 16 giugno 1721, al fratello Bernardo Maria - e Vico s'affretta ad inneggiare al "divin consiglio eterno" donante all'umanità "due gran germani", uno papa, l'altro associato alle "sue cure in parte" -, ma così non affligge la Chiesa con un prelato indegno. Il cardinale Bernardo Maria Conti s'è già distinto per suo conto in passato ed è ecclesiastico preparato e scrupoloso. Imputabile, semmai, papa Conti non per il cardinalato al fratello, ma per gli altri due cardinali da lui creati per promesse fatte in sede di conclave. Uno è Alessandro Albani. E così ripaga Annibale, il promotore primo della sua elezione, di quello fratello maggiore. L'altro è Dubois; e la nomina di costui è proprio scandalosa. Al contrario di Clemente XI papa Conti cede. D'altronde, pur di essere eletto, ha "donnée par écrit" la propria "parole". Pei contemporanei è il reggente di Francia quel che fa cardinale Dubois. E Saint-Simon annota che si va dicendo che, come Caligola ha fatto senatore il proprio cavallo, così il duca Filippo d'Orléans fa cardinale Dubois. E ciò tramite la cedevolezza di papa Conti, che, una volta papa, paga il pedaggio impostogli per diventare papa anche coi voti francesi. E quale la sorte dei tre figli - uno "in abito clericale", gli altri due "secolari senza moglie" - del duca di Poli e, quindi, nipoti del papa? Benevolo con tutti e tre, non per questo è tacciabile di smaccato favoritismo. Sin logico benedica le nozze del nipote Marcantonio, duca di Guadagnolo, con Faustina Mattei dei duchi di Paganica, per festeggiare le quali Annibale Antonini, un giovane letterato campano, allestisce una nutrita silloge di Rime (s.l. 1722), sollecitando per questa un "componimento" anche da Muratori. E anche se questi non invia nemmeno un sonetto, presenti nella raccolta versi di Baruffaldi e Vico, di Facciolati e Metastasio, di Rolli e Francesco Saverio Quadrio, di Zappata e Crescimbeni. È evidente che tanto garrulo verseggiare lo si deve al fatto che lo sposo è nipote del papa. Più che comprensibile Carlo - il primogenito di Giuseppe e come tale a questi subentrante nel titolo di duca di Poli che, alla sua morte, nel 1751 passa a Marcantonio - sia insignito della gran croce dell'Ordine del S. Sepolcro. Un pizzico di favoritismo effettivo è invece elargito a vantaggio di Stefano, il nipote prete: l'ingresso "in prelatura nel posto di protonotario apostolico soprannumerario coll'aggiunta di 2 mila scudi di annua rendita di benefici ecclesiastici". Sin qui pei nipoti, parenti stretti. Suo parente alla lontana monsignor Zosimo Valignani, referendario d'ambo le Segnature e protonotario apostolico. E pure suo parente alla lontana Federico Valignani, marchese di Cippagatti e signore di Torrevecchia e Valignano nonché fondatore nel 1720, nella natia Chieti, della colonia arcadica Tegea essendo della stessa vicecustode. Per quest'ultimo il papa si limita a caldeggiare una qualche carica a Napoli. Nessun abuso della carica, dunque, da parte di I. per favorire la parentela. E, al più, un po' di soddisfazione alla boria di famiglia quando - dopo che, nell'agosto del 1721, è sorta lite di "preminenza" tra il connestabile Fabrizio Colonna e monsignor Stefano Conti, il nipote ecclesiastico - il papa coglie il destro per assegnare la precedenza a questi e per stabilire per lui e i suoi fratelli "la figura et il posto di nepoti regnanti", sì che le loro carrozze possano, senza contestazioni, passare per prime. E, a voler essere un po' puntigliosi, c'è un po' d'occhio di riguardo alla famiglia nella bolla, del 15 febbraio 1724, di conferma del decreto della Congregazione dei Riti sul culto immemorabile del beato Andrea de Comitibus suo lontano antenato.
Troppo breve, comunque, il suo pontificato - due anni, nove mesi, ventinove giorni a voler precisare cronologicamente - perché lasci un segno significativo sull'economia dello Stato pontificio. Riconferma il 9 luglio 1721, il 27 maggio 1722 e il 4 luglio 1723 gli editti di Clemente XI in materia di libero commercio interno dei grani e ripete, il 28 giugno 1721, il divieto, già stabilito dal predecessore, d'importazione di alcuni tessuti esteri. Segnalabile, altresì, la privativa - che non include le Legazioni di Bologna e Ferrara - del 1721 a Andrea Collin per una fabbrica di spille. E sancita con chirografo pontificio del 27 settembre 1721 la proposta della Congregazione da lui costituita in merito alle "tratte" granarie a detta della quale queste vanno fissate in 2 rubbi di grano per ogni rubbio di maggese e di 1 rubbio di grano per ciascun rubbio di colti. Col che c'è un minimo d'esportazione anche all'estero. Un minimo attento, per tal verso, papa Conti, a sollevare "l'arte agraria" e un minimo interessato a problemi d'economia e di politica se legge - rimanendone impressionato - manoscritto il Testamento politico di Lione Pascoli, che sarà stampato a Perugia nel 1733. Ma non è indicativa di gran apertura mentale la conferma, del 18 gennaio 1724, della Constitutio di Clemente VIII vietante agli ebrei "novarum rerum mercaturam" così costringendoli al solo "strazzariae seu cenciariae exercitium". Investito Carlo VI del Regno di Napoli e Sicilia con condono del pagamento degli arretrati del relativo contributo in contraccambio dell'impegno ad una regolare corresponsione pel futuro, riprende - dopo lunga interruzione -, il 29 giugno 1722, l'omaggio della chinea; naturalmente il connestabile Filippo Colonna non adopera l'"idioma spagnolo", bensì, come s'esige a Vienna, il latino. Inascoltato, però, il papa laddove chiede l'abolizione della Legazia di Sicilia, ché l'imperatore - incurante della bolla di soppressione del 1714 - non rinuncia alle prerogative della "Sicula monarchia". E smacco cocente pel pontefice la "dilazione" della restituzione di Comacchio. Troppo debole il papato per imporla. Troppo poco autorevole Roma per contare sul piano internazionale. Sicché - così l'inviato veneziano Corner il 28 giugno 1721 - a I. non resta che manifestare inane "gelosia" pei "due trattati" di Francia e Spagna coll'Inghilterra stipulati senza interpellarlo. La politica estera europea prescinde dal papa. E non per colpa sua, ma per la strutturale irrilevanza del papa re sul piano internazionale e per la scemata autorevolezza del vicario di Cristo. Al pontefice, insomma, si sta badando sempre meno. E ciò anzitutto da parte dei sovrani cattolici. Non è che risulti frenato il loro interventismo nel terreno del cosiddetto "mixti iuris", non è che prestino orecchie ricettive agli ammonimenti romani in fatto di contenzioso giurisdizionale. Il fatto sia confermato nella Segreteria dei Brevi quel Carlo Maiello distintosi per una dura replica ad una scrittura del 1708 - anonima, ma, in realtà, d'Alessandro Riccardi - sostenente le Ragioni del regno di Napoli nella causa de' suoi benefici ecclesiastici, non frena l'avanzata dello Stato, delle sue ragioni. Il fatto che I. se la prenda coll'Istoria civile del regno di Napoli di Giannone - e al punto da forzare il parere del Sant'Uffizio, al punto da intervenire nella minuta della condanna indurendola sì da bollarla come eretica - non suscita più che tanta impressione a Vienna, dove l'autore è riparato: qui lavora indisturbato, qui, nell'autunno del 1724, gli verrà concessa una pensione imperiale. Vien da dire che nelle grandi capitali il papa non riesce a farsi sentire se non quando quel che dice è in sintonia colle convenienze della politica. E, allora, viene adoperato, utilizzato. Vien da dire che il papa comanda realmente solo in casa propria, a Roma. E ciò anche resistendo alle pressioni da fuori. Ciò, ad esempio, avviene con Alberoni, che, con papa Conti, viene assolto e reintegrato, di contro alle proteste di Madrid e Parma, nella dignità cardinalizia. "Terminata l'ultima congregazione [così, l'11 settembre 1723, l'inviato veneto Cappello] sopra l'affare del cardinale Alberoni e segnato il voto di sua assolutione", è lo stesso fratello del papa, il cardinale Conti, a recarsi "alla di lui casa" a comunicargli "la gratita notitia" assicurandolo della "propensione" papale a por fine, una volta per tutte, allo "scabroso negotio". Chiuso il processo con breve d'I. del 18 dicembre. E, nel Concistoro del 12 gennaio 1724, è il papa stesso a dargli "il cappello". Indipendente in questo papa Conti. Ma vano, nell'imminenza dell'estinzione della dinastia farnesiana, l'insistere suo sull'essere Parma e Piacenza feudo papale. Un cruccio, altresì, per lui, il tardare della "conclusione" del rinnovo del concordato colla Spagna. La pratica va per le lunghe anche perché il nunzio Alessandro Aldobrandini non s'attiva a sufficienza. Né ad I. - il quale, comunque, emana, il 23 maggio 1723, una bolla "pro restauranda ecclesiastica disciplina in regnis Hispaniarum" che un regio decreto, del 9 marzo 1724, raccomanda d'osservare - è dato di vederla portata a termine.
Quanto all'Unigenitus, la memoria dell'atteggiamento assunto alla sua promulgazione dall'allora cardinal Conti, la speranza, sia pure, non fondata, d'una sua apertura al conciliarismo e all'episcopalismo inducono sette vescovi francesi a rivolgersi a lui per ottenerne la revoca. Il 9 giugno 1721 eccoli indirizzare una lettera al pontefice ove, con piglio ardimentoso, a lui, appunto, s'appellano per la soppressione d'una bolla - l'Unigenitus - che, infetta d'arianesimo, pelagianesimo e molinismo, s'è tradotta in persecuzione dei cristiani autentici, dei vescovi migliori dando, nel contempo, la stura al più impudente lassismo, ai più sfacciati comportamenti. Rallentato il viaggio della lettera da un percorso volto a guadagnarle consensi: prima passa per Vienna, quivi, però, accolta freddamente dall'episcopato austriaco; sicché il testo - nel frattempo stampato in latino e in francese e caldamente elogiato dal giuscanonista lovaniense Zeger Bernard Van Espen - giunge a Roma solo in novembre. Subito negativa la reazione del papa. Subito svanito l'equivoco d'un suo supposto filogiansenismo. Amarissima la delusione di quanti s'erano troppo illusi in tal senso. Trasmessa da I. la lettera all'Inquisizione che, l'8 gennaio 1722, la condanna nei termini più aspri e severi. Ribadito, allora, l'Unigenitus. E pubblicata il 24 marzo la condanna, mentre, nello stesso giorno, un breve papale è indirizzato al re di Francia a netto chiarimento della volontà della Santa Sede di rimanere saldamente confitta nel solco scavato da Clemente XI. E lo stesso vien ripetuto nella lettera, sempre del 24, al reggente, il quale - colla stampa del testo di quanto scritto e al sovrano e a lui - approfitta dell'occasione per avvantaggiarsene politicamente. I sette incauti vescovi condannati da Roma diventano avversari politici. Di fatto non tanto devono temere il papa - che si limita a trasmettere gli atti ecclesiastici non a loro direttamente, ma ai vescovi viciniori - quanto il reggente che, senza tanti scrupoli, adopera la condanna papale a fini di politica interna, di controllo repressivo.
Certo: quando I. ha letto la lettera in lui ingenuamente troppo fidente s'è sdegnato e l'ha fatta condannare. Ma c'era un passo che forse l'ha indotto ad una riflessione parzialmente consenziente. È quello dove i sette vescovi accennano alla canea scatenata contro l'arcivescovo di Parigi - il cardinale Luigi Antonio de Noailles - dai fautori del lassismo, dai sostenitori di pratiche transigenti lassamente e sin loscamente scivolate in Cina nei cosiddetti riti cinesi. A questi, a suo tempo, allorché nunzio in Portogallo, papa Conti s'è ben opposto. Li ha considerati un compromesso coll'idolatria ben più pericoloso degli errori addebitabili a Quesnel. E non sordo allora, in Portogallo, e poi, a Roma, a quanto contro i Gesuiti s'è detto e si va dicendo. Se mai sono stati la mano destra della Chiesa, ebbene anche la destra - se reca danni, se è infetta - va tagliata; così, a suo tempo e da un bel pezzo, nella Congregazione dei Riti, il cardinale Girolamo Casanate. Esortante all'estirpazione della mala pianta della Compagnia Domenico Perroni, procuratore della Propaganda Fide. Su posizioni nettamente antigesuitiche il legato in Cina monsignor Carlo Ambrogio Mezzabarba, patriarca d'Alessandria. Furiosa la tempesta d'una violenza d'accuse che s'avventa sulla Compagnia aggredendola ormai nel suo modo d'essere, nello spirito di corpo separato animante una militanza troppo orgogliosa di sé per piegarsi all'umiltà di un'obbediente sottomissione. E in Cina la Compagnia è andata troppo in là, riottosa ad ogni tentativo di ridisciplinamento e inalveamento. Ed è, appunto, per questo che s'intensificano a Roma - così il veneziano Cappello l'11 settembre 1723 - "varie e segrete congregationi" mirate al "modo di poner in qualche sogetione l'auttorità assai dilatata de' gesuiti in quelle parti". Ne sortiscono, il 13, gli Ordini intimati al padre generale della Compagnia Michele Tamburini dal segretario - ancora dal 12 aprile 1717 e sin da allora tanto grintoso coi giansenisti quanto coi Gesuiti - della Propaganda Fide cardinale Pierluigi Carafa "per commando di Nostro Signore", ossia d'Innocenzo. Sorta d'anticipo di quel che sarà il breve di soppressione promulgato, il 7 giugno 1773, da Clemente XIV - e in effetti sta correndo voce che I. voglia proprio questo: la soppressione della Compagnia - il testo (che doveva rimanere segreto; e, invece, una volta in mano giansenista sarà pubblicato) è duramente intimidatorio: esordisce dichiarando intollerabile l'ostinata disobbedienza gesuitica in Cina alle direttive della Santa Sede; prosegue colla diretta accusa a Tamburini di mancata ottemperanza alla solenne promessa d'obbedienza del 20 novembre 1711 ché non ne sono seguite efficaci misure ad estirpazione della continuata insubordinazione dei riottosi confratelli; l'Ordine, insomma, non si sarebbe autocorretto, autodisciplinato; non resta altra possibilità che la correzione dall'esterno con la messa in atto d'un dispositivo seccamente ultimativo. Donde, appunto, gli "ordini": cessino i riti; siano rimossi i disobbedienti; quanto a Tamburini, presenti, entro tre anni, una relazione documentante il più scrupoloso rientro nel solco dell'ottemperanza, pena il blocco dell'ammissione dei novizi; sospeso, nel frattempo, l'invio d'altri missionari in Asia orientale. Un'ordinanza arcigna questa di papa Conti, da applicare all'istante. E, insieme, un giudizio senza processo, cui Tamburini tenta di replicare presentando, nel gennaio del 1724, un memoriale difensivo a propria discolpa, a difesa dei confratelli, a ripulsa dell'accusa più infamante, quella a dir della quale il comportamento dei Gesuiti sarebbe stato a tal punto odioso da provocare l'arresto d'altri missionari, si sarebbe spinto sino alla delazione e al tradimento, sarebbe il responsabile delle disgrazie e dei tormenti dei lazzaristi Luigi Appiani e Teodorico Pedrini. Ma I. sta troppo male per occuparsi della memoria difensiva di Tamburini. Perentoriamente prescrittivi, d'altronde, gli ordini, non discutibili, non revocabili. Non è il caso di prolungare una discussione troppo a lungo protratta. Non si tratta di stabilire se i Gesuiti hanno agito in buona fede, a fin di bene. Va troncato, una volta per tutte, lo scandalo dei riti cinesi. Poco cale Tamburini si pianga vittima d'accuse ingiuste, si proclami in "coscienza" innocente. Non è questo il punto. Quel che conta è riportare sotto ferreo controllo un'azione missionaria proceduta troppo autonomamente. Alla Compagnia s'impongono umiltà ed obbedienza. In caso contrario sarà soppressa. E non è che qualcuno non si sia già espresso in tal senso. E non è che alla soppressione non pensi lo stesso papa. Ma un provvedimento del genere, di tal portata esige il pieno vigore della mente e del corpo. E, invece, all'inizio del 1724, questo è fiaccato, stremato, quella è appannata. Se c'è una connotazione prima da applicare a I., questa è quella della scarsa salute. Se c'è un'aggettivazione che vale per tutto il suo pontificato è quella che lo timbra malato. Notoria la sua malandata condizione fisica già lungo il cardinalato. E questa è stata un elemento a favore della sua elevazione al soglio, di proposito mirata a far seguire ad un papato - quello di Clemente XI - troppo protratto nel tempo uno invece contratto, a breve termine. Tant'è che, in attesa questo finisca, si forma la lista dei più "accreditati" alla successione. E circolano i nomi di Giovanni Battista Bussi, Fabio Olivieri degli Abati, Orazio Filippo Spada, Fabrizio Paolucci. Al limite è la malattia la protagonista del pontificato di papa Conti. E, nel guardare a lui, istintivamente gli uomini di Curia e i diplomatici inclinano a scorgere dietro di lui un qualche successore. Papa a sessantasei anni, la malsana corpulenza che quasi l'immobilizza è già un segno di sofferenza fisica. Il troppo "pingue complesso" lo tortura visibilmente. È un bersaglio fisso per la grandine dei malanni. Riferire del papa coincide col referto medico. I dispacci dei diplomatici, specie di quelli veneti, sono cronache di morte annunciata, descrizione d'un'ingravescenza cui è negato anche il sollievo momentaneo di qualche giorno d'effimero benessere fisico.
Ora il papa soffre di "calcoli con qualche alteratione di febbre", ora di "flussione con gonfiezza in un piede", ora di "molesto raffreddore", ora di "turbatione di stomaco", ora di "flussione dell'occhio" mentre "calcoli" imperversano "con espulsione di materie" indicativa d'"interno sconcerto". Una "poco buona costituzione di sua salute" - così eufemisticamente i rappresentanti veneti costretti a ragguagliare di questa nella misura in cui risultando "arenati dal male del papa tuti li negoziati", di questi ultimi hanno poco da riferire - sulla quale interviene impotente la scienza medica con purghe, salassi, "bagni con l'acque di Vitriollo". L'applicazione di "frequenti rimedii" con "poco buon successo" su di un corpo abbondante d'"humori" e, per l'eccesso di pinguedine, "privo d'ogni esercizio" si fa incrudelente accanimento ricorrente a "emissive di sangue col mezo delle sanguisughe", a "cauteri alle coscie". E, data la "poca fortuna" di siffatti "rimedii", comprensibile il papa provi per loro "una particolare aversione", senza, peraltro, aver la forza di rifiutarli. E giustificabile, altresì, se "lascia fare alle congregazioni", se solo "pochi" hanno "accesso alla di lui persona", se delega compiti, se rinvia udienze. Sta sempre male e, a partire dal febbraio del 1724, sta sempre peggio. Ridotto ormai a oggetto degli "esperimenti dell'arte medica" via via escogitati dai medici in costante "consulto", epperò incapaci d'arrecargli un minimo di "solievo". Le gambe gli si gonfiano, il petto è afflitto da "affanno continuo". Irreversibile l'idropisia. Disperate le sue condizioni all'inizio di marzo. Ma non lo si lascia morire in pace. S'insiste per la "promozione" di quattro nuovi cardinali. Premono dappresso il morente il nipote Stefano, il governatore di Roma Alessandro Falconieri (che diverrà cardinale nel 1727), il commissario all'armi Issolara, l'auditore papale Inara Foschi. Atroci le sofferenze del moribondo. E negli "intervalli" di lucidità lo si sollecita "ad accomodare la sua casa, a socorrere tanti afliti parenti e a formare un partito con la promozione de' cappelli vacanti". Ma alle sollecitazioni si sottrae. Per "alcuni" sono gli "scrupoli di coscienza risentiti gagliardamente" - la "coscienza", commenta il veneziano Cappello è "tarlo che non lascia di rodere anche la mente de' papi" - a trattenerlo; per "altri" così si manifesterebbe il suo "naturale temperamento portato più tosto a non far male che a promuovere il bene d'alcuno". Unica sottoscrizione concessa prima di morire quella alla dispensa matrimoniale per la principessa Maria Carlotta Sobieski che, sposa per soli dodici giorni nel 1723 del principe di Turenne Federico Maria Casimiro e di questo vedova, può così, il 2 aprile 1724, riaccasarsi col fratello del defunto, il duca di Bouillon Carlo Goffredo. Nel frattempo il "sale d'Inghilterra" somministratogli "per scaricare le parti seriose" non produce che "forti convulsioni" e gonfiore di ventre, mentre "una specie di risipola con febre" è "segno manifesto della contamination del sangue" e la "supurazione" d'"humor" si converte irreparabilmente "in cancrena". E nell'infierire della sofferenza pare pronunci il nome di Comacchio. Giunge, in effetti, il 6 marzo, alle 22, un corriere da Vienna latore, si dice, della notizia della "restitution"; sarebbe, pel morente, un conforto la certezza della "conclusion dell'affare". E, forse, con questa certezza spira alle "hore 22" del 7. In realtà la faccenda non è ancora risolta. Da un dispaccio, dell'11, di Cappello risulta, invece, che il cardinale Alvaro Cienfuegos sta adoperandosi per un ulteriore rinvio: meglio attendere ancora serbando la "restitutione [...] come un mezo eficace di captivare e guadagnar l'animo del nuovo pontefice". E così, in effetti, ci si regola a Vienna, dove si sa in breve, "per l'arrivo triplicato de' corrieri", della scomparsa d'I.: è morto - scrive dalla capitale imperiale Pietro Ercole Gherardi il 15 a Muratori - "dalla lunga malattia estenuato" e "dall'applicazione de' remedii contrari rovinato". È morto, insomma, questa la risultante, e di malattia e di scienza medica. Quanto a Muratori, da quel che scrive il 16 da Modena a Mauro Alessandro Lazzarelli, par di capire si auguri "la morte del buon papa" - e l'aggettivo suona piuttosto limitativo, è quasi sinonimo di modesto, quasi il contrario di grande; più positiva, invece, la valutazione di Benedetto XIV che, in una lettera al cardinale Pierre Guérin de Tencin, dirà I. "uomo savio e discreto" - abbia "interrotto il bello mercato che s'era dietro a fare a danno nostro", ossia, vien da azzardare, la restituzione di Comacchio che - per Muratori - non spetta alla Chiesa.
Intanto c'è stato, l'8, da parte del camerlengo, il riconoscimento del cadavere la mattina seguito la sera dal trasporto a S. Pietro, "col solito stile [commenta Cappello] [...] più tosto dovuto ad un general militare che al capo della Chiesa". Sepolto dapprima a S. Pietro - e pronunciata dal futuro cardinale Giacomo Amadori Lanfredini l'Oratio (Roma 1724) funebre -, dove non avrà alcun monumento, le spoglie sono poi trasferite nelle Grotte davanti all'altare della Madonna della Febbre. Trentaquattro i mesi di regno di papa Conti, commenta cinico Pasquino, di cui diciassette mesi trascorsi mangiando e i successivi diciassette dormendo. In questo caso Pasquino non solo è ingiusto, ma nemmeno spiritoso. È solo grevemente ottuso. Volendo compendiare il breve pontificato - rimpianto, a detta di de Brosses, in Italia tra il maggio del 1739 e l'aprile del 1740, dai Romani, sicché I. sarebbe "il miglior sovrano che oggi si ricordi" - d'I. menzionabili, oltre al libero commercio dei grani all'interno e alla loro parziale esportabilità, il permesso (che Benedetto XIII revocherà) del gioco del lotto, l'istituzione - per gli uniati - del vescovado di Fagara¸s annesso da Carlo VI all'arcivescovado di Gran. E ancora: l'avvio dei lavori della scalinata, suggestivamente scenografica, di Trinità dei Monti su progetto, scelto da I., di Francesco de Sanctis; l'acquisizione, per la Vaticana, di codici orientali e della collezione numismatica del cardinale Alessandro Albani; la cattedra, alla Sapienza, per Vincenzo Gravina; i restauri delle fondamenta di ponte S. Angelo, dell'obelisco di S. Pietro, della chiesa di S. Eustachio, l'inizio della costruzione della facciata di S. Giovanni in Laterano. E fatto proprio dal sinodo romano del 1725 l'editto del 1723 nel quale I. ordina ai troppi ecclesiastici venuti a Roma per qualche pratica e quivi, allettati dalla piacevolezza del soggiorno, troppo sostanti di - "omni mora et cunctatione postposita" - partire immediatamente per portarsi - "rectis itineribus", per la via più breve, insomma - "ad suas ecclesias seu beneficia" a farvi la debita "residentiam".
FONTI E BIBLIOGRAFIA
Nato a Poli, vicino a Roma, Michelangelo Conti discendeva dalla nobile famiglia dei Conti di Segni, alla quale era appartenuto un altro pontefice, Innocenzo III ed altri (Gregorio IX, Alessandro IV) gliene venivano attribuiti.
Michelangelo Conti, secondogenito d'Isabella Muti (non Monti) e di Carlo, duca di Poli, nasce in questa il 13 maggio 1655. Timbrato il natio borgo dal massiccio palazzo dei de Comitibus o Conti a visualizzare un multisecolare dominio signorile che affonda le sue radici nel Medioevo: titolare di piccole proprietà presso Segni Trasmondo, il padre d'Innocenzo III - gloria massima della famiglia questi; ma dalla stessa provengono pure i papi Alessandro IV e Gregorio IX; e alla stessa riconducibile un po' sinanco Bonifacio VIII, nipote del beato Andrea de Comitibus -, mentre suo figlio Riccardo è, appunto, investito dal fratello papa del feudo di Poli. E signore di Poli il senatore Giovanni Conti. E duca di Poli - per arrivare in tempi più recenti - il Torquato Conti che sposa Violante Farnese figlia naturale del duca di Parma Ottavio. E loro figlio quell'Appio comandante le truppe pontificie in Francia nel 1592-1593. E uomini d'armi i Conti che si distinguono nella prima metà del '600 - difensori di Praga dagli Svedesi un Torquato e un Innocenzo, mentre un altro Torquato, duca di Guadagnolo, è generale d'artiglieria attivo contro i Danesi e gli Svedesi durante la guerra dei Trent'anni - al soldo dell'Impero, non senza che ciò costituisca un elemento a favore di Michelangelo allorché la corte di Vienna dovrà ponderare l'opportunità di favorirlo nell'ascesa al culmine della Chiesa. Né, nel contempo, digiuni di lettere i Conti; e potrebbe essere il padre del futuro pontefice quel Carlo Conti che dedica al vescovo di San Miniato Alessandro Strozzi i propri Elegiarum libri duo (Florentiae 1641).
Destinato il primogenito Giuseppe all'eredità di titolo e feudi e al proseguimento della famiglia, quel che attende Michelangelo e, pure, il terzogenito Bernardo Maria è la carriera ecclesiastica. E affermato in questa lo zio paterno Giovanni Nicola - cardinale il 15 febbraio 1666 avrà dei voti nel conclave che eleggerà, il 21 settembre 1676, Innocenzo XI - presso il quale, vescovo d'Ancona dal 29 marzo 1666, Michelangelo fanciullo viene collocato. È, dunque, nella residenza vescovile anconitana che egli ha la sua prima istruzione, proseguita poi a Roma, nel Collegio gesuitico. Ipotizzabile, alla luce dei successivi atteggiamenti di Conti, l'esperienza della didassi dei padri della Compagnia di Gesù non sia stata, per lui, gran che positiva; azzardabile, allora, che già lungo questa nascano le premesse, quanto meno psicologiche, delle future diffidenza, scarsa simpatia e, poi, antipatia e, poi, ostilità manifesta. Comunque, alla formazione umanistica della "ratio studiorum", segue la laurea "in utroque" alla Sapienza, che - coll'assunzione degli ordini sacri - correda il giovane di tutti i requisiti per candidarsi all'affermazione nella Curia romana. Prima tappa dell'ascesa la nomina a cameriere segreto d'Alessandro VIII; e questi l'invia a Venezia latore, pel doge Francesco Morosini, del pileo e dello stocco (cioè del cappello e della spada d'onore di generale della Chiesa; "carico di perle", ma di scarso valore il primo; più apprezzata la seconda di 36 libbre d'argento dorato). Solenne, l'8 maggio 1690, la cerimonia di consegna nella basilica marciana: letto il breve papale dell'8 aprile, Conti, col nunzio Giuseppe Archinto, presenta il dono. Ed è lui (che il papa, nel qualificarlo, definisce "dilectus filius", "cubicularius noster" dotato di "praestantes virtutes atque animi dotes" nonché di prestigiosi natali) a pronunciare un elaborato discorso di circostanza ad elogio del doge campione della lotta antiturca.
Referendario, il 14 agosto 1691, d'entrambe le Segnature, il 17 dello stesso mese è pure nominato governatore di Ascoli. Segue, il 6 dicembre 1692, la designazione a governatore, da Frosinone, della provincia di Campagna e Marittima. Ulteriore promozione la nomina, del 6 maggio 1693, a governatore di Viterbo, che, colpita, nel giugno del 1695, da una forte scossa di terremoto, provvede a risollevare disponendo il restauro degli edifici lesionati e il ripristino della viabilità. Ma non ci rimane ché - nominato il 13 arcivescovo di Tarso - è a Roma che tale viene consacrato dal cardinale Galeazzo Marescotti il 26, essendo altresì, il 28, decorato del titolo di vescovo assistente al soglio pontificio. Nominato, quindi, il 1° luglio, nunzio in Svizzera, s'insedia a Lucerna il 7 settembre rimanendovi sino al 24 novembre 1697. Di nuovo a Roma, il 24 marzo 1698 viene preposto alla più prestigiosa Nunziatura di Portogallo. Raggiunta Lisbona il 5 giugno, Conti vi rappresenta la Santa Sede in un periodo contrassegnato dall'afflusso d'oro brasiliano, dall'intensificata coltivazione della vite, dal sagomarsi stesso dell'economia in funzione della domanda inglese. E sancito lo stretto legame coll'Inghilterra dal trattato commerciale del 27 dicembre 1703, conseguenza, peraltro, dell'adesione, del 16 maggio, del re Pietro II all'alleanza antiborbonica costituita dall'Impero, l'Olanda e, appunto, l'Inghilterra. Una autentica svolta questa della politica estera per cui il sovrano passa dall'iniziale sostegno a Filippo di Borbone a quello fornito a Carlo d'Asburgo. E in tal senso il nunzio s'è attivamente adoperato. Tant'è che - come annota ancora il 1° luglio 1701 il diarista Valesio - a Roma i cardinali francesi di lui si vanno lamentando; promosse, a loro dire, dal nunzio le "difficoltà" che i "ministri" francesi e spagnoli incontrano nella corte portoghese ogniqualvolta cercano d'ottenere da Pietro II una qualche "risposta positiva" ai loro "interessi". Colpa di Conti - protestano i porporati filoborbonici e antiasburgici - se il re non ascolta, non presta orecchio a quanto quelli chiedono. Nefaste le sue "persuasioni" in contrario. Né l'accusa è poi tanto esagerata se - come risulta da un "piego" di lettere dello stesso nunzio "intercetto" - egli, appunto, scrive che a Lisbona sta facendo "il possibile" per non far seguire la lega fra il Portogallo e la Francia e la Spagna. Sin orientante l'influenza di Conti se riesce a far passare il re sul fronte opposto. Ma, in fatto di "real padroado", non è che il nunzio riesca a smorzare l'ampia portata con cui l'intende il re. Apprezzato, in ogni caso, daClemente XI il suo operato e premiato, il 7 giugno 1707, col conferimento della porpora, cui s'aggiunge, il 24 gennaio 1709, il vescovato di Osimo. Un apprezzamento che va anche alla fermezza con cui egli si batte contro i riti cinesi, i quali, invece, trovano comprensione a corte ché efficaci ad allargare la penetrazione missionaria e, con questa, a consolidare le posizioni portoghesi. Energicamente contrastate da lui le giustificazioni della Compagnia e da lui fatte proprie le proteste del cardinale Carlo Tommaso Maillard de Tournon che a lui s'appella, nel gennaio del 1708, dal lontano "ergastolo" di Macao dove, sensibili alle trame gesuitiche e con queste conniventi, le autorità portoghesi di fatto l'hanno sequestrato. Durissime le rimostranze del nunzio a Giovanni V e non senza trapassare - al di là del dramma personale di Tournon - ad una offensiva contro la Compagnia accusata di sistematici intrigo e menzogna. E ha dalla sua la moglie del re, Maria Anna d'Austria, la figlia del defunto imperatore Leopoldo I, la sorella dell'imperatore Giuseppe I.
A Lisbona sino al 24 agosto 1710, quando ne parte prima dell'arrivo del successore Vincenzo Bichi nominato nunzio ancora il 27 settembre 1709, Conti rientra a Roma forte della designazione - che deve soprattutto alla regina - a protettore della nazione portoghese presso la Santa Sede. Un onore e, pure, un lucro che gli assicura una rendita di 6.000 scudi all'anno. Ciò - sempre che sia esatto quanto di Conti scrive riepilogando brevemente la sua vita antecedente al papato l'ambasciatore veneto Andrea Corner - sino al 1712. E poi - alla morte, il 18 dicembre 1714, del cardinale Cesare d'Estrées - la "protezione del re di Portogallo" la riassumerebbe con conseguente vantaggio retributivo. Nel frattempo, il 23 febbraio 1711, intitolato il suo cardinalato ai SS. Quirico e Giulitta e ribadito il suo profilo episcopale colla nomina, del 1° agosto 1712, a vescovo di Viterbo. E tale rimane sinché, il 14 marzo 1719, per ragioni di salute rinuncia. Più rilevante, comunque, di questo suo episcopato viterbese la sua presa di distanza dalla bolla - emessa l'8 settembre 1713 e pubblicata il 10; questa nel condannare centouno proposizioni delle Réflexions morales di Quesnel, di fatto condanna l'intera dottrina giansenistica - Unigenitus Dei Filius di Clemente XI. Agisce in lui la stizza del cardinale offeso dalla mancata consultazione del Collegio cardinalizio. Questo è stato scavalcato. E Conti eccepisce sul metodo. Ma il suo eccepire va oltre quando - forse orientato dal suo teologo di fiducia, il servita Gerardo Capassi - considera la bolla non tanto formulazione "ex cathedra", quanto sorta di giudizio personale sia pure del papa, in certo qual modo, allora, opinabile e, come tale, non vincolante le coscienze. Col che, rispetto alla bolla, il cardinale Conti quasi si defila, non senza che questo suo atteggiamento sia inteso e frainteso nell'affabulazione degli ambienti giansenisti e filogiansenisti a mo' di virtuale scelta di campo; al suo reagire dettato da spirito di corpo - quello dell'appartenenza al Collegio cardinalizio - vien fatto credito d'un sottinteso agostinianismo che, sommato all'intransigenza contro i riti cinesi manifestata in Portogallo, accosterebbe Conti proprio al giansenismo. E la sua estraneità alla pietà cristologica esasperata in chiave patetica sino a culminare nella liturgia della festa del Preziosissimo Sangue è travisata a mo' di conferma d'un suo schierarsi alternativo, che, di fatto, non c'è mai stato. Tant'è che - anche se tutt'altro che convinto della colpevolezza d'Alberoni - non è che, come membro della Congregazione che, riunitasi il 19 marzo 1720, si pronuncia, il 22, per l'apertura del processo a quello, manifesti le sue intime riserve.
Morto, il 19 marzo 1721, Clemente XI, arduo prevedere chi gli succederà, come constatano e gli osservatori e gli stessi partecipanti al conclave. Nemmeno "il partito de todeschi" - così il rappresentante della Serenissima Corner i cui dispacci costituiscono un attendibile rendiconto sull'andamento del conclave - si presenta compatto, "molto fortificato et unito". Sarà, allora, decisiva la "pluralità de voti de zelanti". Il 1° aprile, in prima battuta, sedici voti su ventotto vanno al cardinale Fabrizio Paolucci, già segretario di Stato del papa defunto. Sono molti, ma non bastano. Per vincere occorrono i due terzi dei suffragi. E a stroncare le speranze di Paolucci piomba il veto di Vienna di cui è latore il cardinale Michele Federico Althan. Nel contempo, già il 1° aprile, due voti vanno a Conti. E nelle votazioni successive - due al giorno, una mattutina, l'altra pomeridiana - il suo nome compare, sparisce, poi ricompare ora con un solo voto, ora, come nella mattinata del 14, con sette. Il che, se si considera che, nel frattempo, i votanti sono aumentati, non è gran che indicativo. Più sintomatica, invece, la costanza - anche se con qualche soluzione di continuità: nessun voto, ad esempio, nella mattina del 20, nel pomeriggio del 21 e in quello del 23 - del resistere e persistere del suo nome. Il 26 ha quattro voti il mattino, due il pomeriggio. Poca cosa, stando ai numeri. Però è proprio il 26 che Corner registra come "sopra il cardinale Conti si promosse una voce favorevole per lui di tutta Roma". Ancorché "effimera", è già un tratto distintivo. "In conclave" già s'appalesano i fautori di Conti. E tra questi colui che più esce allo scoperto è il cardinale Annibale Albani - quello che incamera il grosso dei 30.000 talleri francesi distribuiti dal cardinale Armando Gastone Massimiliano di Rohan; quello che più s'è affannato e più s'affanna per la concessione della porpora a Guglielmo Dubois (donde l'impegno scritto, da parte di Conti, in tal senso, "au cas", così Saint-Simon, sia eletto) -, anche perché interessato "a succedergli", a lui, a Conti "nella protezione di Portogallo per la quale contribuisce il re" Giovanni V "6 mila scudi annualmente".
Quasi spaventato - a questo punto - Corner da quel che va appurando, quasi sconcertato dall'intreccio di calcoli che non si levano un palmo da terra di cui è costretto a prender atto. E, quasi a metter le mani avanti con una preventiva dichiarazione di fede, eccolo allora assicurare che - checché vada scrivendo -, in ogni caso, "l'opera dello Spirito Santo" è indubbiamente attiva lungo il conclave, sicché "atterra ogni maneggio", scompagina calcoli, sconvolge disegni. Ma non è che sia visibile. Per quel che vede e sente e intende non gli resta che descrivere lo spettacolo offerto da oltre una quarantina di porporati che "studiano" sì "di fare il papa", ma, nel contempo, applicandosi "ad accomodar se stessi chi per la strada degli onori e dell'auttorità chi per posti lucrosi". E continuo allora il "maneggio" sollecitato da terreni appetiti che, ormai, tra fine aprile ed inizio di maggio, gira vorticoso attorno al nome di Conti. A lui ancora ostili gli "spagnoli"; a lui non favorevole il cardinale Francesco Acquaviva d'Aragona. È, invece, così Corner il 30 aprile, "portato" dai "todeschi" che lo ritengono "ottimamente inclinato all'imperatore", è "fiancheggiato dalli francesi", risulta "prescielto dalla maggior parte del partito dell'Albani". Ma dai voti ciò stenta a manifestarsi. Appena un voto a Conti il 4 maggio, sia di mattina che di pomeriggio. Che sia il suo? Nel frattempo Althan sta lanciando la candidatura del cardinale Francesco Pignatelli. Ancora manovre e contromanovre. Salta fuori come "causa di molto pregiudizio" per Conti il fatto abbia "numerose parentelle". Uomo, a detta di Saint-Simon, "doux, bon, timide", Conti "amait fort sa maison". E questa è - cogli Orsini, i Savelli, i Colonna - delle quattro più importanti a Roma. È imparentata a destra e a manca. C'è da paventare un papa nepotista o, quanto meno, pressato dai parenti, dalla clientela familiare. Nel frattempo s'ingrossa il corpo elettorale. I votanti - appena ventotto il 1° aprile - il 7 maggio sono cinquantaquattro. E Conti quel giorno non racimola che quattro voti la mattina e sei il pomeriggio. Ciò non toglie la vittoria sia certa. Anche Althan - che Vico, per piaggeria, trasformerà in suo promotore: mosso da "zelo di Dio e di Cesare" fa trionfare, "con gloria di Dio e di Cesare", il cardinale Conti, verseggia il filosofo - accondiscende, passa dalla sua parte. Sicché, all'indomani, l'8, al settantacinquesimo scrutinio è eletto papa, pressoché all'unanimità, con cinquantatré voti. Un voto - il suo, questa volta può permetterselo - va al cardinale decano Sebastiano Antonio Tanara. E, in memoria dell'avo Innocenzo III, il neopontefice adotta, appunto, il nome d'Innocenzo XIII. Esultante Corner annuncia alla Repubblica che, finalmente, "si è dato alla Chiesa il suo capo e padre comune [...] acclamato et eletto con tutti li voti". Palese - commenta - "l'opera dello Spirito Santo nel prescieglierlo ad un posto così eminente di vicario di Christo". Artefice - riepiloga - dell'elezione il cardinale Albani: "esce il nuovo papa", infatti, "dal numero delle sue creature"; una volta, spiega, caduta la candidatura di Paolucci, Conti è divenuto il "primo, anzi [...] unico soggetto de' suoi maneggi". Determinante, altresì, "la fazione de' todeschi", cui s'è aggiunta quella dei "francesi".
"Tutti parlano bene" del nuovo papa a Vienna, scrive da questa, il 24, Apostolo Zeno a Corner: "tutti", a Vienna, vanno dicendo che il "nuovo eletto" è "uomo franco e sincero, inclinato al ben fare a tutti, amante delle lettere" com'è desumibile, se non altro, dall'"assai buona libreria" da lui costituita. E fatto proprio anche da Zeno il giudizio della corte; anche pel poeta cesareo I. è "uomo da bene e lontano da ogni interesse e passione". C'è da sperarne "un felice pontificato". Non altrettanto speranzoso Muratori che - nello scriverne, già il 14, da Modena a Zeno - ricorda che pure in Clemente XI "letterato" s'era confidato: "poteva far tanto in pro delle lettere" e, invece, ha deluso; "nulla di grande ha fatto". Quanto ad I., "staremo a vedere se farà meglio". È Vallisneri quello che con più decisione si rallegra: "stimo assai il pontefice presente" - scrive il 28 da Padova lo scienziato a Muratori - se non altro "perché ha avuto petto di conoscere il cattivo genio di chi vi vuol poco bene e s'è levata una vipera dal seno". È chiaro: Vallisneri fa presente a Muratori che è proprio lui quello che dovrebbe gioire. Appena papa, I. ha allontanato di brutto Giusto Fontanini dalle "stanze" assegnategli "nel palazzo apostolico" dal suo predecessore, come, avvilitissimo, lamenta questi il 4 giugno in una lettera al cardinale Orsini, il futuro Benedetto XIII, che, suo protettore, una volta papa, lo risarcirà d'esser "stato licenziato" tanto bruscamente con un appartamento al Quirinale. Fresco autore di Della istoria del dominio temporale della Sede Apostolica nel ducato di Parma e Piacenza (Roma 1720), Fontanini non s'attendeva un "trattamento" del genere da Innocenzo XIII. Evidentemente questi ritiene controproducente il suo oltranzismo curialistico. Ed evidentemente da cardinale non ha gran che apprezzato la veemenza del suo polemizzare con Muratori. In disgrazia Fontanini per tutto il pontificato di papa Conti, trattato, protesta col cardinale Orsini, peggio d'un nemico della "Santa Sede" che, invece, "ha difesa senza rispetti umani". Ma se il dotto friulano ha di che piangere, l'Arcadia tripudia. Innalzato al culmine della Chiesa chi, ancora il 12 dicembre 1719, è stato acclamato arcade col nome d'Aretalgo Argireo. E in onore del neopontefice le celebrazioni arcadiche dei giochi olimpici dell'agosto 1721, nei giardini, all'Aventino, del principe Francesco Maria Ruspoli, arcade attivissimo, lo stesso che, ancora il 1° gennaio 1703, ha offerto un memorabile banchetto al connestabile Filippo Colonna e al fratello maggiore d'I. il duca di Poli Giuseppe Conti. E gran festa pure a Lisbona per una nomina fervidamente caldeggiata dalla regina; entusiasta il panegirico dedicato al papa, nell'accademia reale, dal conte d'Ericeira. E anche se Giovanni V non è accontentato nella sua immediata pretesa della porpora per Bichi, può un po' consolarsi coll'ingresso in Arcadia col nome d'Arete Melleo celebrato nel novembre del 1721. E arcade, ancora dal 1703, col nome di Ramiro Maiadeo l'ambasciatore di Portogallo, il conte das Salveas Andrea de Mello e Castro, il quale in onore d'I. fa mettere in scena, a palazzo Capranica, La virtù negli amori, un "componimento musicale" d'Alessandro Scarlatti realizzato con allestimento di Francesco Galli Bibiena.
Ma, oltre all'allontanamento di Fontanini, quali le altre prime mosse del papa incoronato solennemente il 18 maggio nella basilica di S. Pietro? rimosso dall'ufficio di segretario dei Brevi ai principi Giovanni Cristoforo Battelli e fatto arcivescovo, "in partibus", di Seleucia nonché nunzio a Napoli Vincenzo Antonio Alamanni, già segretario della Congregazione dell'Unigenitus e della Cifra. Una promozione rimozione nel suo caso. Morto, il 9 maggio 1721, il vicario di Roma cardinale Giovanni Domenico Paracciani, subito ricoperto il posto vacante dal cardinale Paolucci. Segretario ai Brevi il cardinale Fabio Olivieri; alla prefettura del Concilio il cardinale Curzio Origo; alla Dataria il cardinale Pietro Marcellino Corradini; alla Legazione di Bologna il cardinale Tommaso Ruffo, senza che debba rinunciare all'arcivescovato di Ferrara; maestro di camera Sinibaldo Doria. E teologo del papa non Capassi - all'ufficializzazione del suo ruolo consultivo s'oppongono i cardinali Francesco del Giudice e Lorenzo Corsini (il futuro Clemente XII) -, ma l'abate benedettino Leandro di Porcia (cardinale nel 1728), a suo tempo difensore del De ingeniorum moderatione in religionis negotio (Lutetiae Parisiorum 1714) di Muratori. Una scelta questa del teologo che un minimo autorizza a connotare le propensioni del papa. E, se così è, vien da dedurre che il mancato accesso, del settembre del 1721, al colloquio col papa di Paolo della Croce giunto ad implorare l'approvazione per l'Ordine - quello dei Passionisti - da lui fondato nel 1720 non sia limitabile al rifiuto del sorvegliante la porta sconcertato dai suoi stracci miserandi. Perché gli si dia attenzione occorre un altro papa, Benedetto XIII. E sbarrate, allora, di proposito le porte con I. al fondatore della Congregazione dei Chierici Scalzi della Croce e della Passione di Cristo. Non è che papa Conti ami circondarsi d'accesi mistici. Semmai preferisce i lumi dell'erudizione cattolica. Suo prelato domestico Francesco Bianchini, il dotto antichista, il cultore d'astronomia. E i talenti li preferisce impiegati; sicché sottrae al ritiro Domenico Passionei e lo nomina, il 18 giugno 1721, nunzio a Lucerna. Preposto alla carica più importante - quella di segretario di Stato - il cardinale Giorgio Spinola, con disappunto del cardinale Althan che avrebbe preferito vederla assegnata al cardinale Ruffo o al cardinale Giulio Piazza. "Inconfidente", in effetti, d'Althan Spinola, ma non sgradito a Vienna. Tant'è che la nomina è salutata con favore dall'ambasciatore straordinario al conclave Francesco Ferdinando Kinski e da Eugenio di Savoia. E se ne compiacciono pure i cardinali Alvaro Cienfuegos e Wolfgang Annibale von Schrattenbach.
Un esordio, a tutta prima, felice questo di papa Conti, con un nucleo di collaboratori rinnovato e "tutti" - così Corner - "pontuali nel loro impiego". Ma subito negativa l'eccessiva "confidenza" del papa - e in ciò gioca anche il rispetto pel fratello maggiore - nel duca di Poli, che, da un lato presuntuoso, dall'altro di nulla competente, si pavoneggia a suo mentore, a suo consigliere e ispiratore. E, anche per giustificare la sua costante presenza, eccolo nominato, nel novembre del 1721, "principe del solio". Poco male il titolo. Ma non innocuo nella misura in cui si fa contenuto, ché il papa - a mano a mano nelle udienze si stanca e le riduce - finisce, non senza che sorgano conflitti di competenza collo Spinola, a girare problemi e questioni al fratello, col dirottare a questo gli incontri coi diplomatici e i rappresentanti esteri. Sicché da un lato si gonfia il sussiego del duca, dall'altro si fa notoria la sua "renitenza" ad "entrare" concretamente "in qualunque negotio". È in ballo da un bel pezzo la pretesa di Bologna all'"introduttione" delle acque del Reno nel Po. I tecnici ne discutono da decenni. E I. non ha la lena d'occuparsene. E, dichiarandosi ignaro dell'argomento, non esita ad esortare l'ambasciatore veneziano Pietro Cappello a trattarne col fratello. Ed ecco che quello, nel colloquio con quest'ultimo, affronta lo spinoso argomento della paventata - non solo dalla Serenissima, ma anche da Modena, da Mantova e dalla stessa pontificia Ferrara - diversione. Solo che il duca di Poli subito lo zittisce dicendo che "non aveva alcuna cognitione di questo negotio". Così proprio quando è il papa a stabilire che l'"affare del Reno" è di sua pertinenza. Troppo riguardoso il secondogenito col primogenito per constatare la sprovvedutezza sin ridicola di questi. Comprensibile Spinola si irriti. Disturbante presenza quella del principe del soglio ai fini del funzionamento. Ma non per questo imputabile I. di favoritismo eccessivo. Non è che il duca di Poli s'arricchisca. Né, per quanto vagheggi l'"acquisto del ducato di Massa", il papa s'adopera per accontentarlo. I timori d'eccessi nepotistici avanzati all'affacciarsi della sua candidatura non è che si avverino. Concede sì la porpora, il 16 giugno 1721, al fratello Bernardo Maria - e Vico s'affretta ad inneggiare al "divin consiglio eterno" donante all'umanità "due gran germani", uno papa, l'altro associato alle "sue cure in parte" -, ma così non affligge la Chiesa con un prelato indegno. Il cardinale Bernardo Maria Conti s'è già distinto per suo conto in passato ed è ecclesiastico preparato e scrupoloso. Imputabile, semmai, papa Conti non per il cardinalato al fratello, ma per gli altri due cardinali da lui creati per promesse fatte in sede di conclave. Uno è Alessandro Albani. E così ripaga Annibale, il promotore primo della sua elezione, di quello fratello maggiore. L'altro è Dubois; e la nomina di costui è proprio scandalosa. Al contrario di Clemente XI papa Conti cede. D'altronde, pur di essere eletto, ha "donnée par écrit" la propria "parole". Pei contemporanei è il reggente di Francia quel che fa cardinale Dubois. E Saint-Simon annota che si va dicendo che, come Caligola ha fatto senatore il proprio cavallo, così il duca Filippo d'Orléans fa cardinale Dubois. E ciò tramite la cedevolezza di papa Conti, che, una volta papa, paga il pedaggio impostogli per diventare papa anche coi voti francesi. E quale la sorte dei tre figli - uno "in abito clericale", gli altri due "secolari senza moglie" - del duca di Poli e, quindi, nipoti del papa? Benevolo con tutti e tre, non per questo è tacciabile di smaccato favoritismo. Sin logico benedica le nozze del nipote Marcantonio, duca di Guadagnolo, con Faustina Mattei dei duchi di Paganica, per festeggiare le quali Annibale Antonini, un giovane letterato campano, allestisce una nutrita silloge di Rime (s.l. 1722), sollecitando per questa un "componimento" anche da Muratori. E anche se questi non invia nemmeno un sonetto, presenti nella raccolta versi di Baruffaldi e Vico, di Facciolati e Metastasio, di Rolli e Francesco Saverio Quadrio, di Zappata e Crescimbeni. È evidente che tanto garrulo verseggiare lo si deve al fatto che lo sposo è nipote del papa. Più che comprensibile Carlo - il primogenito di Giuseppe e come tale a questi subentrante nel titolo di duca di Poli che, alla sua morte, nel 1751 passa a Marcantonio - sia insignito della gran croce dell'Ordine del S. Sepolcro. Un pizzico di favoritismo effettivo è invece elargito a vantaggio di Stefano, il nipote prete: l'ingresso "in prelatura nel posto di protonotario apostolico soprannumerario coll'aggiunta di 2 mila scudi di annua rendita di benefici ecclesiastici". Sin qui pei nipoti, parenti stretti. Suo parente alla lontana monsignor Zosimo Valignani, referendario d'ambo le Segnature e protonotario apostolico. E pure suo parente alla lontana Federico Valignani, marchese di Cippagatti e signore di Torrevecchia e Valignano nonché fondatore nel 1720, nella natia Chieti, della colonia arcadica Tegea essendo della stessa vicecustode. Per quest'ultimo il papa si limita a caldeggiare una qualche carica a Napoli. Nessun abuso della carica, dunque, da parte di I. per favorire la parentela. E, al più, un po' di soddisfazione alla boria di famiglia quando - dopo che, nell'agosto del 1721, è sorta lite di "preminenza" tra il connestabile Fabrizio Colonna e monsignor Stefano Conti, il nipote ecclesiastico - il papa coglie il destro per assegnare la precedenza a questi e per stabilire per lui e i suoi fratelli "la figura et il posto di nepoti regnanti", sì che le loro carrozze possano, senza contestazioni, passare per prime. E, a voler essere un po' puntigliosi, c'è un po' d'occhio di riguardo alla famiglia nella bolla, del 15 febbraio 1724, di conferma del decreto della Congregazione dei Riti sul culto immemorabile del beato Andrea de Comitibus suo lontano antenato.
Troppo breve, comunque, il suo pontificato - due anni, nove mesi, ventinove giorni a voler precisare cronologicamente - perché lasci un segno significativo sull'economia dello Stato pontificio. Riconferma il 9 luglio 1721, il 27 maggio 1722 e il 4 luglio 1723 gli editti di Clemente XI in materia di libero commercio interno dei grani e ripete, il 28 giugno 1721, il divieto, già stabilito dal predecessore, d'importazione di alcuni tessuti esteri. Segnalabile, altresì, la privativa - che non include le Legazioni di Bologna e Ferrara - del 1721 a Andrea Collin per una fabbrica di spille. E sancita con chirografo pontificio del 27 settembre 1721 la proposta della Congregazione da lui costituita in merito alle "tratte" granarie a detta della quale queste vanno fissate in 2 rubbi di grano per ogni rubbio di maggese e di 1 rubbio di grano per ciascun rubbio di colti. Col che c'è un minimo d'esportazione anche all'estero. Un minimo attento, per tal verso, papa Conti, a sollevare "l'arte agraria" e un minimo interessato a problemi d'economia e di politica se legge - rimanendone impressionato - manoscritto il Testamento politico di Lione Pascoli, che sarà stampato a Perugia nel 1733. Ma non è indicativa di gran apertura mentale la conferma, del 18 gennaio 1724, della Constitutio di Clemente VIII vietante agli ebrei "novarum rerum mercaturam" così costringendoli al solo "strazzariae seu cenciariae exercitium". Investito Carlo VI del Regno di Napoli e Sicilia con condono del pagamento degli arretrati del relativo contributo in contraccambio dell'impegno ad una regolare corresponsione pel futuro, riprende - dopo lunga interruzione -, il 29 giugno 1722, l'omaggio della chinea; naturalmente il connestabile Filippo Colonna non adopera l'"idioma spagnolo", bensì, come s'esige a Vienna, il latino. Inascoltato, però, il papa laddove chiede l'abolizione della Legazia di Sicilia, ché l'imperatore - incurante della bolla di soppressione del 1714 - non rinuncia alle prerogative della "Sicula monarchia". E smacco cocente pel pontefice la "dilazione" della restituzione di Comacchio. Troppo debole il papato per imporla. Troppo poco autorevole Roma per contare sul piano internazionale. Sicché - così l'inviato veneziano Corner il 28 giugno 1721 - a I. non resta che manifestare inane "gelosia" pei "due trattati" di Francia e Spagna coll'Inghilterra stipulati senza interpellarlo. La politica estera europea prescinde dal papa. E non per colpa sua, ma per la strutturale irrilevanza del papa re sul piano internazionale e per la scemata autorevolezza del vicario di Cristo. Al pontefice, insomma, si sta badando sempre meno. E ciò anzitutto da parte dei sovrani cattolici. Non è che risulti frenato il loro interventismo nel terreno del cosiddetto "mixti iuris", non è che prestino orecchie ricettive agli ammonimenti romani in fatto di contenzioso giurisdizionale. Il fatto sia confermato nella Segreteria dei Brevi quel Carlo Maiello distintosi per una dura replica ad una scrittura del 1708 - anonima, ma, in realtà, d'Alessandro Riccardi - sostenente le Ragioni del regno di Napoli nella causa de' suoi benefici ecclesiastici, non frena l'avanzata dello Stato, delle sue ragioni. Il fatto che I. se la prenda coll'Istoria civile del regno di Napoli di Giannone - e al punto da forzare il parere del Sant'Uffizio, al punto da intervenire nella minuta della condanna indurendola sì da bollarla come eretica - non suscita più che tanta impressione a Vienna, dove l'autore è riparato: qui lavora indisturbato, qui, nell'autunno del 1724, gli verrà concessa una pensione imperiale. Vien da dire che nelle grandi capitali il papa non riesce a farsi sentire se non quando quel che dice è in sintonia colle convenienze della politica. E, allora, viene adoperato, utilizzato. Vien da dire che il papa comanda realmente solo in casa propria, a Roma. E ciò anche resistendo alle pressioni da fuori. Ciò, ad esempio, avviene con Alberoni, che, con papa Conti, viene assolto e reintegrato, di contro alle proteste di Madrid e Parma, nella dignità cardinalizia. "Terminata l'ultima congregazione [così, l'11 settembre 1723, l'inviato veneto Cappello] sopra l'affare del cardinale Alberoni e segnato il voto di sua assolutione", è lo stesso fratello del papa, il cardinale Conti, a recarsi "alla di lui casa" a comunicargli "la gratita notitia" assicurandolo della "propensione" papale a por fine, una volta per tutte, allo "scabroso negotio". Chiuso il processo con breve d'I. del 18 dicembre. E, nel Concistoro del 12 gennaio 1724, è il papa stesso a dargli "il cappello". Indipendente in questo papa Conti. Ma vano, nell'imminenza dell'estinzione della dinastia farnesiana, l'insistere suo sull'essere Parma e Piacenza feudo papale. Un cruccio, altresì, per lui, il tardare della "conclusione" del rinnovo del concordato colla Spagna. La pratica va per le lunghe anche perché il nunzio Alessandro Aldobrandini non s'attiva a sufficienza. Né ad I. - il quale, comunque, emana, il 23 maggio 1723, una bolla "pro restauranda ecclesiastica disciplina in regnis Hispaniarum" che un regio decreto, del 9 marzo 1724, raccomanda d'osservare - è dato di vederla portata a termine.
Quanto all'Unigenitus, la memoria dell'atteggiamento assunto alla sua promulgazione dall'allora cardinal Conti, la speranza, sia pure, non fondata, d'una sua apertura al conciliarismo e all'episcopalismo inducono sette vescovi francesi a rivolgersi a lui per ottenerne la revoca. Il 9 giugno 1721 eccoli indirizzare una lettera al pontefice ove, con piglio ardimentoso, a lui, appunto, s'appellano per la soppressione d'una bolla - l'Unigenitus - che, infetta d'arianesimo, pelagianesimo e molinismo, s'è tradotta in persecuzione dei cristiani autentici, dei vescovi migliori dando, nel contempo, la stura al più impudente lassismo, ai più sfacciati comportamenti. Rallentato il viaggio della lettera da un percorso volto a guadagnarle consensi: prima passa per Vienna, quivi, però, accolta freddamente dall'episcopato austriaco; sicché il testo - nel frattempo stampato in latino e in francese e caldamente elogiato dal giuscanonista lovaniense Zeger Bernard Van Espen - giunge a Roma solo in novembre. Subito negativa la reazione del papa. Subito svanito l'equivoco d'un suo supposto filogiansenismo. Amarissima la delusione di quanti s'erano troppo illusi in tal senso. Trasmessa da I. la lettera all'Inquisizione che, l'8 gennaio 1722, la condanna nei termini più aspri e severi. Ribadito, allora, l'Unigenitus. E pubblicata il 24 marzo la condanna, mentre, nello stesso giorno, un breve papale è indirizzato al re di Francia a netto chiarimento della volontà della Santa Sede di rimanere saldamente confitta nel solco scavato da Clemente XI. E lo stesso vien ripetuto nella lettera, sempre del 24, al reggente, il quale - colla stampa del testo di quanto scritto e al sovrano e a lui - approfitta dell'occasione per avvantaggiarsene politicamente. I sette incauti vescovi condannati da Roma diventano avversari politici. Di fatto non tanto devono temere il papa - che si limita a trasmettere gli atti ecclesiastici non a loro direttamente, ma ai vescovi viciniori - quanto il reggente che, senza tanti scrupoli, adopera la condanna papale a fini di politica interna, di controllo repressivo.
Certo: quando I. ha letto la lettera in lui ingenuamente troppo fidente s'è sdegnato e l'ha fatta condannare. Ma c'era un passo che forse l'ha indotto ad una riflessione parzialmente consenziente. È quello dove i sette vescovi accennano alla canea scatenata contro l'arcivescovo di Parigi - il cardinale Luigi Antonio de Noailles - dai fautori del lassismo, dai sostenitori di pratiche transigenti lassamente e sin loscamente scivolate in Cina nei cosiddetti riti cinesi. A questi, a suo tempo, allorché nunzio in Portogallo, papa Conti s'è ben opposto. Li ha considerati un compromesso coll'idolatria ben più pericoloso degli errori addebitabili a Quesnel. E non sordo allora, in Portogallo, e poi, a Roma, a quanto contro i Gesuiti s'è detto e si va dicendo. Se mai sono stati la mano destra della Chiesa, ebbene anche la destra - se reca danni, se è infetta - va tagliata; così, a suo tempo e da un bel pezzo, nella Congregazione dei Riti, il cardinale Girolamo Casanate. Esortante all'estirpazione della mala pianta della Compagnia Domenico Perroni, procuratore della Propaganda Fide. Su posizioni nettamente antigesuitiche il legato in Cina monsignor Carlo Ambrogio Mezzabarba, patriarca d'Alessandria. Furiosa la tempesta d'una violenza d'accuse che s'avventa sulla Compagnia aggredendola ormai nel suo modo d'essere, nello spirito di corpo separato animante una militanza troppo orgogliosa di sé per piegarsi all'umiltà di un'obbediente sottomissione. E in Cina la Compagnia è andata troppo in là, riottosa ad ogni tentativo di ridisciplinamento e inalveamento. Ed è, appunto, per questo che s'intensificano a Roma - così il veneziano Cappello l'11 settembre 1723 - "varie e segrete congregationi" mirate al "modo di poner in qualche sogetione l'auttorità assai dilatata de' gesuiti in quelle parti". Ne sortiscono, il 13, gli Ordini intimati al padre generale della Compagnia Michele Tamburini dal segretario - ancora dal 12 aprile 1717 e sin da allora tanto grintoso coi giansenisti quanto coi Gesuiti - della Propaganda Fide cardinale Pierluigi Carafa "per commando di Nostro Signore", ossia d'Innocenzo. Sorta d'anticipo di quel che sarà il breve di soppressione promulgato, il 7 giugno 1773, da Clemente XIV - e in effetti sta correndo voce che I. voglia proprio questo: la soppressione della Compagnia - il testo (che doveva rimanere segreto; e, invece, una volta in mano giansenista sarà pubblicato) è duramente intimidatorio: esordisce dichiarando intollerabile l'ostinata disobbedienza gesuitica in Cina alle direttive della Santa Sede; prosegue colla diretta accusa a Tamburini di mancata ottemperanza alla solenne promessa d'obbedienza del 20 novembre 1711 ché non ne sono seguite efficaci misure ad estirpazione della continuata insubordinazione dei riottosi confratelli; l'Ordine, insomma, non si sarebbe autocorretto, autodisciplinato; non resta altra possibilità che la correzione dall'esterno con la messa in atto d'un dispositivo seccamente ultimativo. Donde, appunto, gli "ordini": cessino i riti; siano rimossi i disobbedienti; quanto a Tamburini, presenti, entro tre anni, una relazione documentante il più scrupoloso rientro nel solco dell'ottemperanza, pena il blocco dell'ammissione dei novizi; sospeso, nel frattempo, l'invio d'altri missionari in Asia orientale. Un'ordinanza arcigna questa di papa Conti, da applicare all'istante. E, insieme, un giudizio senza processo, cui Tamburini tenta di replicare presentando, nel gennaio del 1724, un memoriale difensivo a propria discolpa, a difesa dei confratelli, a ripulsa dell'accusa più infamante, quella a dir della quale il comportamento dei Gesuiti sarebbe stato a tal punto odioso da provocare l'arresto d'altri missionari, si sarebbe spinto sino alla delazione e al tradimento, sarebbe il responsabile delle disgrazie e dei tormenti dei lazzaristi Luigi Appiani e Teodorico Pedrini. Ma I. sta troppo male per occuparsi della memoria difensiva di Tamburini. Perentoriamente prescrittivi, d'altronde, gli ordini, non discutibili, non revocabili. Non è il caso di prolungare una discussione troppo a lungo protratta. Non si tratta di stabilire se i Gesuiti hanno agito in buona fede, a fin di bene. Va troncato, una volta per tutte, lo scandalo dei riti cinesi. Poco cale Tamburini si pianga vittima d'accuse ingiuste, si proclami in "coscienza" innocente. Non è questo il punto. Quel che conta è riportare sotto ferreo controllo un'azione missionaria proceduta troppo autonomamente. Alla Compagnia s'impongono umiltà ed obbedienza. In caso contrario sarà soppressa. E non è che qualcuno non si sia già espresso in tal senso. E non è che alla soppressione non pensi lo stesso papa. Ma un provvedimento del genere, di tal portata esige il pieno vigore della mente e del corpo. E, invece, all'inizio del 1724, questo è fiaccato, stremato, quella è appannata. Se c'è una connotazione prima da applicare a I., questa è quella della scarsa salute. Se c'è un'aggettivazione che vale per tutto il suo pontificato è quella che lo timbra malato. Notoria la sua malandata condizione fisica già lungo il cardinalato. E questa è stata un elemento a favore della sua elevazione al soglio, di proposito mirata a far seguire ad un papato - quello di Clemente XI - troppo protratto nel tempo uno invece contratto, a breve termine. Tant'è che, in attesa questo finisca, si forma la lista dei più "accreditati" alla successione. E circolano i nomi di Giovanni Battista Bussi, Fabio Olivieri degli Abati, Orazio Filippo Spada, Fabrizio Paolucci. Al limite è la malattia la protagonista del pontificato di papa Conti. E, nel guardare a lui, istintivamente gli uomini di Curia e i diplomatici inclinano a scorgere dietro di lui un qualche successore. Papa a sessantasei anni, la malsana corpulenza che quasi l'immobilizza è già un segno di sofferenza fisica. Il troppo "pingue complesso" lo tortura visibilmente. È un bersaglio fisso per la grandine dei malanni. Riferire del papa coincide col referto medico. I dispacci dei diplomatici, specie di quelli veneti, sono cronache di morte annunciata, descrizione d'un'ingravescenza cui è negato anche il sollievo momentaneo di qualche giorno d'effimero benessere fisico.
Ora il papa soffre di "calcoli con qualche alteratione di febbre", ora di "flussione con gonfiezza in un piede", ora di "molesto raffreddore", ora di "turbatione di stomaco", ora di "flussione dell'occhio" mentre "calcoli" imperversano "con espulsione di materie" indicativa d'"interno sconcerto". Una "poco buona costituzione di sua salute" - così eufemisticamente i rappresentanti veneti costretti a ragguagliare di questa nella misura in cui risultando "arenati dal male del papa tuti li negoziati", di questi ultimi hanno poco da riferire - sulla quale interviene impotente la scienza medica con purghe, salassi, "bagni con l'acque di Vitriollo". L'applicazione di "frequenti rimedii" con "poco buon successo" su di un corpo abbondante d'"humori" e, per l'eccesso di pinguedine, "privo d'ogni esercizio" si fa incrudelente accanimento ricorrente a "emissive di sangue col mezo delle sanguisughe", a "cauteri alle coscie". E, data la "poca fortuna" di siffatti "rimedii", comprensibile il papa provi per loro "una particolare aversione", senza, peraltro, aver la forza di rifiutarli. E giustificabile, altresì, se "lascia fare alle congregazioni", se solo "pochi" hanno "accesso alla di lui persona", se delega compiti, se rinvia udienze. Sta sempre male e, a partire dal febbraio del 1724, sta sempre peggio. Ridotto ormai a oggetto degli "esperimenti dell'arte medica" via via escogitati dai medici in costante "consulto", epperò incapaci d'arrecargli un minimo di "solievo". Le gambe gli si gonfiano, il petto è afflitto da "affanno continuo". Irreversibile l'idropisia. Disperate le sue condizioni all'inizio di marzo. Ma non lo si lascia morire in pace. S'insiste per la "promozione" di quattro nuovi cardinali. Premono dappresso il morente il nipote Stefano, il governatore di Roma Alessandro Falconieri (che diverrà cardinale nel 1727), il commissario all'armi Issolara, l'auditore papale Inara Foschi. Atroci le sofferenze del moribondo. E negli "intervalli" di lucidità lo si sollecita "ad accomodare la sua casa, a socorrere tanti afliti parenti e a formare un partito con la promozione de' cappelli vacanti". Ma alle sollecitazioni si sottrae. Per "alcuni" sono gli "scrupoli di coscienza risentiti gagliardamente" - la "coscienza", commenta il veneziano Cappello è "tarlo che non lascia di rodere anche la mente de' papi" - a trattenerlo; per "altri" così si manifesterebbe il suo "naturale temperamento portato più tosto a non far male che a promuovere il bene d'alcuno". Unica sottoscrizione concessa prima di morire quella alla dispensa matrimoniale per la principessa Maria Carlotta Sobieski che, sposa per soli dodici giorni nel 1723 del principe di Turenne Federico Maria Casimiro e di questo vedova, può così, il 2 aprile 1724, riaccasarsi col fratello del defunto, il duca di Bouillon Carlo Goffredo. Nel frattempo il "sale d'Inghilterra" somministratogli "per scaricare le parti seriose" non produce che "forti convulsioni" e gonfiore di ventre, mentre "una specie di risipola con febre" è "segno manifesto della contamination del sangue" e la "supurazione" d'"humor" si converte irreparabilmente "in cancrena". E nell'infierire della sofferenza pare pronunci il nome di Comacchio. Giunge, in effetti, il 6 marzo, alle 22, un corriere da Vienna latore, si dice, della notizia della "restitution"; sarebbe, pel morente, un conforto la certezza della "conclusion dell'affare". E, forse, con questa certezza spira alle "hore 22" del 7. In realtà la faccenda non è ancora risolta. Da un dispaccio, dell'11, di Cappello risulta, invece, che il cardinale Alvaro Cienfuegos sta adoperandosi per un ulteriore rinvio: meglio attendere ancora serbando la "restitutione [...] come un mezo eficace di captivare e guadagnar l'animo del nuovo pontefice". E così, in effetti, ci si regola a Vienna, dove si sa in breve, "per l'arrivo triplicato de' corrieri", della scomparsa d'I.: è morto - scrive dalla capitale imperiale Pietro Ercole Gherardi il 15 a Muratori - "dalla lunga malattia estenuato" e "dall'applicazione de' remedii contrari rovinato". È morto, insomma, questa la risultante, e di malattia e di scienza medica. Quanto a Muratori, da quel che scrive il 16 da Modena a Mauro Alessandro Lazzarelli, par di capire si auguri "la morte del buon papa" - e l'aggettivo suona piuttosto limitativo, è quasi sinonimo di modesto, quasi il contrario di grande; più positiva, invece, la valutazione di Benedetto XIV che, in una lettera al cardinale Pierre Guérin de Tencin, dirà I. "uomo savio e discreto" - abbia "interrotto il bello mercato che s'era dietro a fare a danno nostro", ossia, vien da azzardare, la restituzione di Comacchio che - per Muratori - non spetta alla Chiesa.
Intanto c'è stato, l'8, da parte del camerlengo, il riconoscimento del cadavere la mattina seguito la sera dal trasporto a S. Pietro, "col solito stile [commenta Cappello] [...] più tosto dovuto ad un general militare che al capo della Chiesa". Sepolto dapprima a S. Pietro - e pronunciata dal futuro cardinale Giacomo Amadori Lanfredini l'Oratio (Roma 1724) funebre -, dove non avrà alcun monumento, le spoglie sono poi trasferite nelle Grotte davanti all'altare della Madonna della Febbre. Trentaquattro i mesi di regno di papa Conti, commenta cinico Pasquino, di cui diciassette mesi trascorsi mangiando e i successivi diciassette dormendo. In questo caso Pasquino non solo è ingiusto, ma nemmeno spiritoso. È solo grevemente ottuso. Volendo compendiare il breve pontificato - rimpianto, a detta di de Brosses, in Italia tra il maggio del 1739 e l'aprile del 1740, dai Romani, sicché I. sarebbe "il miglior sovrano che oggi si ricordi" - d'I. menzionabili, oltre al libero commercio dei grani all'interno e alla loro parziale esportabilità, il permesso (che Benedetto XIII revocherà) del gioco del lotto, l'istituzione - per gli uniati - del vescovado di Fagara¸s annesso da Carlo VI all'arcivescovado di Gran. E ancora: l'avvio dei lavori della scalinata, suggestivamente scenografica, di Trinità dei Monti su progetto, scelto da I., di Francesco de Sanctis; l'acquisizione, per la Vaticana, di codici orientali e della collezione numismatica del cardinale Alessandro Albani; la cattedra, alla Sapienza, per Vincenzo Gravina; i restauri delle fondamenta di ponte S. Angelo, dell'obelisco di S. Pietro, della chiesa di S. Eustachio, l'inizio della costruzione della facciata di S. Giovanni in Laterano. E fatto proprio dal sinodo romano del 1725 l'editto del 1723 nel quale I. ordina ai troppi ecclesiastici venuti a Roma per qualche pratica e quivi, allettati dalla piacevolezza del soggiorno, troppo sostanti di - "omni mora et cunctatione postposita" - partire immediatamente per portarsi - "rectis itineribus", per la via più breve, insomma - "ad suas ecclesias seu beneficia" a farvi la debita "residentiam".
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