Angelo Felici
Segni, 26 luglio 1919 Roma, 17 giugno 2007 Un ricordo del porporato recentemente scomparso di Giulio Andreotti Una fotografia di quattro giovani gitanti in una estate degli anni Trenta mostra me, unico laico, con tre seminaristi: due miei coetanei – Angelo Felici e Vincenzo Fagiolo – e uno con qualche anno di più: Pericle Felici. Tre futuri cardinali. Da Segni si attraversava un paio di volte durante le ferie la valle del Sacco, accolti ad Anagni dai gesuiti nella ospitale mensa del Collegio Leoniano, seminario regionale. Pericle, di qualche anno più anziano, studiava a Roma al Lateranense, mentre Angelo e Vincenzo dopo il seminario diocesano segnino vissero ad Anagni gli anni della Filosofia e Teologia. Angelino era privilegiato perché proprietario di un bel cavallo (Stellino) mentre noi dovevamo affittarne uno che nel resto dell’anno trasportava legna giù dalla montagna. Nella Segni di allora ci si conosceva con i soprannomi, essendo pochissimi i cognomi. Il mio dante causa (cinque lire per tutta la giornata) era Gesù Cristo. Quando nel 1948 mi presentai candidato e feci in Segni il mio primo comizio in piazza riscossi successo, non per i contenuti ma perché, riconosciutolo, salutai con affetto “Gesù Cristo”. Restio alle gite – e anche alla passeggiata pomeridiana – era Pericle, divoratore di libri e fine culture del latino, che lo avrebbe qualificato un giorno come segretario del Concilio ecumenico (e anche, quale cardinale protodiacono, a dar lui l’annuncio della elezione di Giovanni Paolo II: l’immagine relativa è spesso ripresentata alla tv con quel suo tipico accento nell’habbemus Papam). Angelino Felici dopo il Leoniano e l’Accademia ecclesiastica della Minerva, andò a lavorare in Segreteria di Stato (sulle orme di suo zio monsignor Ettore Felici, già rappresentante del Papa in Jugoslavia e in Irlanda). Per anni avemmo l’abitudine di una passeggiata pomeridiana nel giardino dei Passionisti ai Santi Giovanni e Paolo. Senza invasione dei rispettivi campi parlavamo della legislazione concordataria, della questione palestinese, della situazione internazionale in genere. Ero stato anche suo ospite nelle tre sedi diplomatiche in cui lavorò: Lisbona, L’Aia e Parigi. Incisivi particolarmente gli anni olandesi, con fermenti in quel clero che lo angosciavano letteralmente. Tuttavia era un fenomeno di élite perché il popolo conservava una devozione tradizionale (ricordo in una visita nella chiesa di Bois-le-Duc tanti fiori e tante candele da superare il santuario di Pompei). Due punti sono illuminanti e il secondo di perdurante attualità: i problemi della decolonizzazione olandese e il cosiddetto Nuovo Catechismo. Da cardinale guidò, con grande scrupolo, la Congregazione delle cause dei santi. A differenza di Vincenzo Fagiolo che scrisse una lettera al Papa per dimostrare l’errore canonico dei fissati limiti d’età (settantancinque anni per la guida dei dicasteri e ottanta per la partecipazione al conclave) Angelino tacque e obbedì, chiudendosi nel piccolo cenacolo con le suore spagnole, così discrete ed edificanti. Celebrava in spagnolo l’Eucaristia quotidiana e dedicava molto tempo alle preghiere e alla lettura. Assistere alla sua messa era davvero tonificante. Una caduta nell’Aula Paolo VI gli provocò fastidiose conseguenze, mai completamente superate. Si è spento serenamente. La sera precedente in uno stato ormai avanzato di distacco l’ho sentito ricordare Mariannina, l’unica sorella della quale ricordo con quanta emozione celebrò il rito del commiato. Il santo padre Benedetto XVI, nella messa funebre in San Pietro, ha ricordato caratteristiche di una vita esemplare di servizio alla Chiesa. All’indomani l’addio di Segni, celebrato dal vescovo diocesano monsignor Apicella, è stato fortemente partecipato. La vita è oggi tanto diversa dagli anni Trenta. È giusto per noi superstiti andarcene in punta di piedi. |
Pericle Felici
Segni, 1º agosto 1911 Foggia, 22 marzo 1982 SANTA MESSA PER LE ESEQUIE OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II Giovedì, 25 marzo 1982 “Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate” (Lc 12,40). 1. Ancora una volta, cari fratelli e sorelle, l’esperienza ci fa toccare con mano la verità di questo monito, tanto noto, del Vangelo. Siamo ancora tutti sotto l’impressione dolorosa e sgomenta per la inattesa scomparsa dell’amato nostro fratello, il Cardinale Pericle Felici, l’indimenticabile Segretario Generale del Concilio Ecumenico Vaticano II ed al presente Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e Presidente della Pontificia Commissione per la Revisione del Codice di Diritto Canonico. Il Signore, padrone della vita e della morte, ce l’ha improvvisamente sottratto mentre era nel suo impegno operoso di servizio alla Chiesa e nel vivo stesso di un atto di sacerdotale ministero in terra di Puglia, e noi crediamo che, se così ha disposto, ciò risponde a superiori, anche se a noi incomprensibili, ragioni di bontà e di amore misericordioso. Ecco, proprio questo pensiero, ispirato a viva fede, cioè il diretto riferimento ad un parametro essenziale del nostro Credo – “Sive vivimus, sive morimur Domini sumus” (Rm 14,8)! –, deve guidarci e spiritualmente rianimarci durante l’odierna Liturgia: il Signore Iddio toglie e, nello stesso tempo, conserva; ci sottrae la presenza fisica di un fratello assai caro ed insieme ce lo mostra – e ne abbiamo, più che speranza, sicura certezza – rivestito di vita nuova nel nome e per virtù dell’unigenito suo Figlio risorto. Sarà questo stesso pensiero di fede a sostenere il nostro animo, umanamente affranto, ed a tramutare la mesta cerimonia di stamane in realtà di fraterna unione e consolazione. 2. Ho accennato agli uffici o funzioni, indubbiamente importanti, che al compianto Cardinale furono affidati dai miei predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI negli anni della sua maturità. Ma il Cardinale Felici deve essere considerato e ricordato anche per quel che fu e quel che fece negli anni precedenti, come sacerdote tanto ricco di qualità naturali ed umane, quanto arricchito, grazie ad un serio impegno formativo, di quelle doti che sono proprie del vero “homo Dei” (1Tm 6,11). Allora accanto alla sua indole schietta, alla semplicità del tratto, al suo buon senso di autentico laziale e, magari, al suo “humour” e alla sua vena poetica, si presentano a tutto rilievo ed in esemplare validità la sua solida impostazione di “prete romano”, la sua competenza giuridica e la sua passione per la legislazione antica e nuova della Chiesa, il suo lavoro in campo didattico-educativo come Rettore del Pontificio Istituto per gli studi giuridici in sant’Apollinare ed apprezzato Padre Spirituale presso il Seminario Romano Maggiore. Ben potrebbero parlare e testimoniare, a questo riguardo, i numerosi giovani ed ex-alunni di un tempo, che oggi sono sacerdoti e dimostrano, nell’adempimento dei loro ministeri ecclesiali, di aver fatto tesoro delle alte lezioni ricevute dal loro superiore e direttore di spirito. 3. Ma io sento per lui un debito speciale di gratitudine viva e sincera. Come tanti, anzi come tutti i Vescovi partecipanti alle singole sessioni del Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, io ho tuttora nitida dinanzi al mio sguardo la figura del solerte Segretario Monsignor Felici, il quale, incaricato già nelle precedenti fasi ante-preparatoria e preparatoria del complicato e meticoloso lavoro di coordinazione e di selezione nella “mole delle carte” relative alla vastissima problematica conciliare, seppe costantemente dimostrare assidua applicazione, capacità di ascolto, rispetto per le altrui opinioni, chiarezza di visione dei problemi e, all’occorrenza, longanime pazienza, oltre che filiale obbedienza e fedeltà assoluta ai Sommi Pontefici. Fu, il suo, un lavoro quotidiano ed indefesso che non ebbe soste, perché ovviamente il Segretario non era tale solo nell’Aula all’interno di questa Basilica, ma doveva riprendere e continuare lo stesso lavoro, quando quello altrui era terminato. E letteralmente – bisogna aggiungere – esso continuò ancora nel periodo non certo facile del post-Concilio, procedendo nella duplice direzione della pubblicazione di tutti gli Atti ufficiali dell’assise ecumenica e della presidenza della speciale Commissione, che ha il compito di interpretare i decreti conciliari. Né posso dimenticare l’altro importante settore, a cui ho accennato all’inizio, di primo responsabile della Commissione per l’approntamento del nuovo Codice Canonico, un settore per il quale sono del pari necessarie – oltre ad un profondo senso giuridico – non comuni capacità di organizzazione e di sintesi, e nel quale i frutti “Deo adiuvante” già s’intravvedono. È precisamente a questo lavoro, come agli altri incarichi, a lui affidati in seno alla Curia Romana, che io riguardo quando parlo del debito di personale riconoscenza verso il caro Porporato, che ho potuto tanto apprezzare per la competenza, per l’attaccamento, per lo stile – direi – del suo servizio e della sua collaborazione. Egli, come seppe esser sempre degno della fiducia dei miei predecessori, così mi è stato fedelmente vicino in questi anni del mio pontificato, a cominciare da quella sera del 16 ottobre 1978, quando annunciò al mondo il nome del nuovo eletto alla Sede di Pietro. 4. Ma ritorniamo all’evento conciliare, rispetto al quale il Cardinale Felici appare essere stato, per unanime riconoscimento, uno dei protagonisti. Senza insistere su una tale valutazione (non sarebbe questa la sede), vorrei solo osservare che tutta l’attività, da lui svolta nella sua vita, cioè prima, durante e dopo il Concilio, corrisponde a quella nota che fu specifica del Vaticano II: la nota dell’ecclesialità. Davvero il Concilio della Chiesa ebbe nel suo Segretario il servitore della Chiesa, per la quale operò attivamente, disinteressatamente, nel suo impegno di scoprire, insieme con l’assemblea dei fratelli Vescovi, i genuini ed originari lineamenti della Chiesa di Cristo, sacramento di salvezza e di unità per le genti (cf. Lumen Gentium, 1). Egli seppe anche instaurare, nei giorni e nei mesi di questa appassionata ricerca, forme di contatto aperto e cordiale con i confratelli, che fiorirono tanto spesso in sincera amicizia e furono anch’esse riprova del vincolo di collegialità, di cui si discuteva nell’Aula. 5. Stiamo ora per passare dalla Liturgia della Parola alla Liturgia eucaristica, alla quale ci avvia non soltanto ciò che ho detto finora, ma anche e soprattutto il monito, ascoltato nella lettura evangelica. Monito salutare, monito singolare è quell’“estote parati”, che il Signore a noi rivolge (Lc 12,40)! Esso, infatti, non deprime, ma solleva e conforta, perché, pur se ci ricorda il dovere della preparazione e della vigilanza “nell’attesa della sua venuta”, è preceduto molto da vicino dalla proclamazione della beatitudine riservata a coloro che “sono preparati”. Faremo bene, fratelli carissimi, a meditare spesso questa parola insieme ammonitrice e confortatrice di Cristo Gesù: essa configura una delle beatitudini evangeliche e vale, pertanto, a dare sollievo al nostro spirito dinanzi ai lutti improvvisi, che ci colpiscono in proprio o nella persona dei fratelli. Sì, sono “beati quei servi che il Signore, alla sua venuta, troverà vigilanti” (Lc 12,37; cf. 38. 43). Una tale beatitudine, che è premessa e garanzia dell’eterna beatitudine in Dio, può essere sicuramente attribuita al Cardinale Felici, non essendo egli né impreparato né disattento alla voce del Signore. Appena qualche minuto prima dell’improvvisa chiamata, aveva con cuore presago accennato alla partenza da questa terra, che è comune sorte dei mortali, e ne aveva preso spunto – egli, alunno del Seminario Romano, dove è tradizionale ed assai sentita la devozione verso la Madonna della fiducia – per dichiarare dinanzi ai fedeli la certezza di trovare in attesa Maria. Era forse un presentimento? Noi non lo sappiamo, ma sappiamo, speriamo e crediamo che, chiudendo gli occhi sulla scena di questo mondo, egli li ha riaperti all’incontro con la Madre celeste e, da lei guidato, con Gesù Salvatore e Signore. Così sia! |
Vincenzo Fagiolo
Segni, 5 febbraio 1918 Roma, 22 settembre 2000 Un ricordo del cardinal Fagiolo, uomo "Giusto fra le nazioni" Nella Giornata europea dei giusti, festività proclamata dalParlamento europeo nel 2012 da celebrare il 6 marzo, mi piace ricordare un sacerdote cattolico molto legato a Vasto che, nel 1983, a Yad Vashem in Gerusalemme è stato solennemente riconosciuto Giusto tra le nazioni per aver salvato la vita, in quell’annus horribilis1943, all’ ebreo romano Michael Tagliacozzo (scomparso il 15 aprile 2011) – detto incidentalmente, tra i pochi difensori della memoria di Pio XII –. L’allora venticinquenne presbitero – ordinato in quel ministero proprio il 6 marzo del ’43 e subito destinato alla parrocchia dei Santi Venanzio e Fabiano – aveva provveduto a nascondere – insieme con altri (ivi compreso un predicatore di diversa confessione cristiana) – presso il Seminario romano del Laterano quel perseguitato razziale. Il quale, aggiungo, malgrado i notissimi silenzi del Pontefice sulla Shoa, aveva fatto parte di quel «gruppo di ebrei [che] si è fatto promotore di una manifestazione di gratitudine verso il Santo Padre» con la «proposta di apporre sulle mura della Sinagoga una lapide in suo onore». Il testo di questa nota della segreteria di Stato dell’8 giugno 1944 è consultabile nel vol. X degli Actes et Documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale (a c. di P. Blet, A. Martini, R. Graham, B. Schneider, Città del Vaticano, 1965-1981) oggi integralmente pubblicati sul sito web del Vaticano. Non vi sono dubbi. Il giovane prete sapeva di rischiare la vita per salvarne un’altra – e per di più, nell’Italia delle leggi razziali, di un abitante del ghetto –. Ma Lui – insieme con l’amico Pietro Palazzini (futuro cardinale) e con il pastore avventista Daniele Cupertino – aveva deciso di scommettere che il gioco potesse valere la candela della sua personale esistenza. Ritengo che, in tale scelta, Vincenzo Fagiolo (1918-2000) – questo il nome del presbitero divenuto in seguito arcivescovo di Chieti (1971), vescovo di Vasto (1982) e cardinale (1994) – avesse davvero riconosciuto quel Dio che un suo successore vuole oggi cercare. A distanza di quarant’anni da quegli eventi – 1983 –, lo Stato di Israele, attraverso la Commissione presieduta da Moshe Bejski – il fondatore del Giardino dei Giusti – , conferiva all’esponente della Chiesa cattolica (con Palazzini e Cupertino) il titolo d’appartenenza ai Chasidei Umot HaOlam – vale a dire, alla schiera dei Giusti fra le nazioni, i non-ebrei che hanno contribuito alla salvezza degli stessi ebrei dal genocidio nazista –. Ora mi chiedo: ha senso oggi scrivere di questo giusto che, in anni lontani, ha salito le scale della sede di Lotta Continua di Vasto per discutere con i giovani rivoluzionari del tempo alla stessa stregua dei tanti frequentatori, sottolineando con la sua presenza e il suo abito talare la disponibilità a un dialogo di fatto – e non certo per sua responsabilità – mai iniziato? Non avrei mai pensato che, in quell’atto, già si potessero intravvedere i segni di un “riconoscimento” sociale – non certo politico – di quel movimento di autonomia operaia che solo un «viaggiatore leggero» come Alexander Langer sarebbe stato in grado di oltrepassare con la sua “conversione verde”. E allora ripeto a me stesso: ha ancora senso parlare di un uomo che, nella Roma occupata dai nazisti, ha affrontato con mitezza ecclesiale (nell’organizzazione di reti di assistenza clandestina) i mitra della Gestapo e delle SS? Dovessi stare ai fatti direi proprio di no. Nessuno oserei dire – proprio nessuno – si è ricordato di quest’uomo nel corso della Giornata europea dei Giusti. Nessun arcivescovo, nessun vescovo, nessun prete, nessun fedele, nessun laico di professione, nessun amministratore pubblico della città, della provincia, della regione, nessuna istituzione musicale ecc. Nessuno. Nemmeno la commissione che si occupa di ricordare in provincia la storia del 1944. Beh, come tutti sanno, la memoria di un Giusto non fa notizia. Mi piace però citare un episodio di qualche giorno fa. Il 6 marzo sono stato a Chieti, nella cattedrale di S. Giustino, per un omaggio alla tomba del Presule. Ho incontrato due giovani nella stessa posa di rispetto. Mi son detto: bene così. Non sono da solo. Luigi Murolo VINCENTIUS FAGIOLO S.R.E. CARDINALIS IAM TEATINAE VASTENSIS ECCLESIAE ARCHIEP. HIC IN PACE CHRISTI REQUIESCIT V KAL. OCTOB. MM |