PAESI CHE SI AFFACCIANO SULLA VALLE DEL SACCO Visti da Segni (Pianillo)
Acuto -Alatri - Anagni - Bellegra -Capranica Prenestina -Castel San Pietro -Cave -Colleferro -Ferentino -Fiuggi -Frosinone Fumone -Gavignano Genazzano - -Morolo -Palestrina -Paliano -Piglio -Rocca S. Stefano -Rocca di Cave -S.Vito Romano -Serrone -Sgurgola -Torre Caietani
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Corpus Domini- Infiorata
Panorama
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LA STORIA
Le origini storiche di questo ameno paesello, situato sulla cima di un monte isolato, avente forma di cono, fra la catena dell’Appennino centrale e quella dei monti Lepini, si perdono, come suol dirsi, nella notte dei tempi. Le opinioni degli storici sulla sua fondazione sono varie e contraddittorie. Alcuni vogliono che sia stato edificato nell’anno 244 della fondazione di Roma, al tempo, cioè, in cui l’ultimo Re di Roma, Tarquinio il Superbo, fu detronizzato e costretto a lasciare la Città imperiale. Vuolsi che Tarquinio, scacciato dall’Impero e circondato da alcuni sgherri, si facesse costruire la Rocca di Fumone, fortificata da 14 torri e da bastioni, dei quali ancora si conservano gli avanzi vetusti. Altri affermano l’edificazione del Castello al tempo dei Goti comandati da Alarico ( anno 410 D.C.) dei quali sono noti i saccheggi e le invasioni tanto in Roma quanto nelle sue circostanti campagne. Alcuni ne attribuiscono l’origine ai Vandali ( anno 455 D.C.), durante l’invasione degli eserciti di Genserico. In quel tempo difatti il Lazio fu invaso dai Vandali e quindi dai saraceni ( anno 846 D.C.), questi ultimi provenienti specialmente dalla Sicilia e dalla Calabria, usurpatori e invasori di importanti ed estesi territori, specialmente dell’Italia meridionale e centrale. Del loro passaggio per le nostre campagne resta evidente la traccia negli abitanti di molte contrade, che conservano il tipo bruno nel colore degli occhi e della pelle e specialmente nelle donne, per le abbondanti chiome corvine. Non v’è dunque alcun dubbio che Fumone sia antichissima e che sia stata costruita in tempi nei quali s’innalzavano rocche e castelli, non a solo scopo di rifugio e di sicurezza, ma anche di strategia guerresca, poiché l’eccezionale, elevata e isolata posizione della Rocca di Fumone era eccellente vedetta e serviva per segnalazioni di pace e di guerra ai circostanti monti e alle sottostanti vallate. Il suo nome è appunto in relazione alle fumate che s’innalzavano al cielo tra una torre e l’altra : da Castro ad Anagni, da Fumone a Torre Caietani e in tutta la vallata proseguendo sino a Roma. Da qui l’antico detto: Quando Fumo fumat Tota Campania tremat Sarebbe troppo lungo e inopportuno enumerare qui tutte le Castellanie, Signorie e Custodie che presidiarono la Rocca di Fumone sotto i vari pontificati : occorrerà invece illustrare l’episodio più saliente che ne forma il ricordo storico più importante , per il quale Fumone si è reso un luogo di fama storica imperitura. Dopo la morte di Nicolò IV, quando vieppiù infierivano le lotte interne e le fazioni travagliavano l’Italia tutta ( 1292 ), un conclave di cinque Cardinali adunatosi in Perugia, eleggeva Pontefice Massimo una modesta figura di Uomo, ritenuto in concetto di Santo sin dal Pontificato di Urbano IV. Viveva costui in solitario eremitaggio in una piccola grotta o cella situata a ridosso del dirupato Monte Majella, presso Sulmona. Si chiamava Pietro da Morrone ed era nato ad Isernia nel 1215. Cresciuto nella religione, fu Benedettino a 17 anni e nel 1227 fondò l’ordine dei Celestini, che fu approvato dal Pontefice Urbano IV. Grande fu la sorpresa dell’umile fraticello, quando la nobile ambasceria dei Cardinali delegati, per eleggerlo Papa, si recò sullo scosceso eremitaggio e lo trovò assorto in devota contemplazione. All’avvicinarsi del Cardinale Pietro Colonna e dell’Arcivescovo di Lione, Pietro pianse di commozione e si persuase, dietro le esortazioni dei Cardinali, ad accettare il Papato, assumendo il nome di Celestino V. La sua incoronazione avvenne in Aquila il 29 agosto 1294, con grande giubilo ed accorrere di popolo plaudente da ogni parte d’Italia. Dopo la sua consacrazione, il nuovo Papa diede la porpora a parecchi Cardinali, fra i quali Guglielmo Longhi, di nobilissima famiglia di origine bergamasca (1295). Uno degli errori più importanti che si attribuirono al carattere ingenuo ed ignaro di Celestino V nel suo breve pontificato, fu quello di stabilire la sede pontificale in Napoli. Timido e irresoluto, Celestino si trovò parecchie volte in momenti assai critici. Prese a riflettere, a ponderare su di una probabile rinuncia, considerando la propria insufficienza a proseguire l’incarico, dati i tempi facinorosi, per lui troppo grave. I Cardinali lo distoglievano da una simile idea, il popolo lo voleva Papa, ma la storia di quei tempi afferma che un frate suo amico, accorgendosi delle insidie e degli intrighi ai quali il buon Pontefice era fatto segno, lo consigliava e lo decideva senz’altro a rinunciare al papato. Chiamavasi questi Iacopone da Todi, era eminentissimo giureconsulto, nonché insigne letterato. Celestino indisse un concistoro e lesse l’atto di rinuncia il 13 dicembre 1295. Ripreso quindi il suo saio e il suo sacco da eremita, ritornò al suo eremo, assai lieto di essere sfuggito alle gravi cure di quel Papato tanto ardue da sostenersi. Il giorno 24 dicembre 1295 veniva eletto Papa Benedetto Caietani, assumendo il nome di Bonifacio VIII. Nel frattempo Pietro da Morrone, non più sicuro del suo impervio ritiro, se ne era fuggito per boschi e per valli, ramingando in cerca di un più tranquillo e sconosciuto rifugio. Il Papa Bonifacio VIII, fattosi amico in quel tempo di Carlo II d’Angiò, temendo, a causa di Celestino, disordini e perturbamenti avversi alla Chiesa, ordinò che si ricercasse l’eremita fuggiasco. Dopo molte peregrinazioni, l’umile Monaco fu ritrovato mentre su di una fragile barca tentava di trasferirsi in Grecia. Condotto ad Anagni alla presenza di Bonifacio VIII, questi molto urbanamente lo persuadeva a restarsene nella Rocca di Fumone, facendovelo tradurre accompagnato da cavalieri e sgherri. Si ha ragione di credere che il soggiorno di Pietro da Morrone nella Rocca, che durò meno di un anno, divenisse in seguito durissima prigionia. La strettissima cella nella quale venne rinchiuso, e che si vede tuttora, è perfettamente conservata ed è situata nella parte più interna di ciò che è attualmente il Castello e molto prossima a un trabocchetto, che sino al secolo passato era pavimentato di affilatissime lance con la punta rivolta in alto. Il Marchese Pietro Longhi le tolse per cancellare il crudele ricordo. Alcune di tali lance vengono conservate ancora dagli attuali proprietari del Castello. Di questo trabocchetto si scorge tuttora la botola situata in alto, ora murata al di sopra, la quale costituiva allora l’insidia per coloro che, entrati nel Castello, non dovevano più uscirne. La prigionia di Pietro durò 10 mesi e finì con la sua morte, all’età di anni 81. Vestito del suo logoro saio, disteso su di una rozza tavola, assistito da un suo fedele discepolo, Roberto de Salla, trapassò dolcemente il Pontefice Santo, sublime nella sua modestia e nella sua umiltà, il 19 maggio 1296. La storia narra di una visione ch’egli ebbe sul punto di morire. Al finestrino dell’angusto carcere, gli apparve, dicono, una luminosissima croce ed in quella radiosa visione il morente passò altra vita. Il suo corpo riposa nella Chiesa di Colle Maggio, presso Sulmona. Nel 1313 Clemente V lo iscrisse nell’Albo dei Santi. In tutte le edizioni della Divina Commedia i commentatori del Canto III dell’Inferno, ritengono che i versi: "Guardai e vidi l’ombra di Colui Che fece per viltade il gran rifiuto" siano dedicati a Celestino V, che Dante pone fra i peccatori d’ignavia, ma sembra impossibile che il poeta voglia classificare tra quei peccatori un uomo, di si austere e sante virtù, da essere innalzato dalla Chiesa all’onore degli altari. Bonifacio VIII fu accusato dai suoi nemici di crudeltà e tirannia: Sotto i colpi che invidia gli diede Ma i suoi difensori e specialmente Pietro Caietani, il Biseth, Giorgio da Rimini e altri, lo liberarono delle accuse dei seguaci di Re Filippo suoi avversari e dinanzi al Papa Clemente V fecero rifulgere la sua figura di purezza e di gloria. Nel Castello di Fumone è stato sepolto l’antipapa Maurizio Burdino, ex arcivescovo di Braga, il quale, succedendo a Gelasio II (Caietani), fu elevato alla tiara da Enrico III, prendendo il nome di Gregorio VIII; si ritiene che il corpo di costui riposi nello spessissimo muro di un intercapedine che divide il castello dall’attuale Villa . Era Bordino un ribelle, un orgoglioso e un persecutore dei deboli, ma il Papa Callisto II, successore di Gelasio II, ne represse le audacie e le ribellioni, facendolo tradurre e imprigionare nella Rocca di Fumone, ove morì il 28 aprile 1224. Una epigrafe latina ricorda l’avvenimento ed è posta sul luogo che si crede la sua sepoltura. Per completare la parte più interessante di questi brevissimi cenni storici, occorre parlare della famiglia dei Marchesi Longhi, che occuparono Fumone quali Castellani e Signori del luogo :. E’ inopportuno, per brevità, menzionare le origini antichissime di questa storica famiglia, che sono anteriori al secolo XII . Il primo dei Longhi che dimorò in Fumone, fu il Cardinale Guglielmo de Longis, elevato alla porpora da Clemente V dopo la canonizzazione di Celstino V, precisamente nell’anno 1323. Il fratello di lui, Marco Tullio, già custode di Celestino V durante la sua prigionià, fu eletto Castellano perpetuo con regolare Bolla rogita ad Avignone dal notaio della Santa Sede. I figli di Marco Tullio Longhi ne continuarono la prosapia e nel 1359 ritroviamo Giovanni Longhi cavaliere dello Speron d’Oro. Quantunque un incendio del secolo passato distruggesse, o quasi, l’archivio dei Longhi, si ha ragione di credere che gli ascendenti di quest’ultimi contraessero unione con donne dai nomi storici ed illustri quali : Bellarmino, Malatesta, Vitelleschi, Tebaldeschi, Forteguerra, Brancaccio ed altri. Nel 1586 Giovanni Longhi fu ascritto alla nobiltà del patriziato romano. Più volte lo stemma dei Longhi si inquartò con lo stemma dei Caetani, duchi di Sermoneta, fino a D. Emilia Caetani Longhi, morta nel 1885. Antecedentemente, nel 1769, Longhi Pietro di Paolo s’impalmava con Donna Vincenza Caietani dei Conti della Torre. Longhi Nel 1772 nacque Guglielmo Longhi di Pietro, che fu Patrizio romano, primo scudiero e gentiluomo alla Corte di Savoia, nonché cameriere segreto di Pio V (1810) Il marchese Gaetano Longhi di Guglielmo (avo degli attuali proprietari Serventi Longhi) impalmò donna Emilia Caetani fu Enrico, duca di Caserta, sorella di Don Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta. Questi fu padre di Don Onorato ed Avo dei rappresentanti la penultima generazione, cioè gli attuali Don Leone, Don Loffredo, il defunto Don Livio, Don Gelasio, Don Michelangelo e Donna Giovannella coniugata Baronessa Grenier. Il Duca di Sermoneta ebbe anche una figlia, Donna Ersilia, coniugata contessa Lovatelli. Il Marchese Gaetano Longhi fu anch’egli scudiero alla Corte di Savoia e una sua figlia, Teresa Longhi, morta suora nel convento del Bambino Gesù, fu battezzata da Re Carlo Alberto. Vuolsi che il convento, a causa di questa suora eccezionale, innalzasse la bandiera italiana il giorno della presa di Roma nel 1870. La linea maschile primogenita si estinse con i due figli maschi di Gaetano, i quali morirono in tenera età. Gli attuali proprietari di cinque lotti del Castello di Fumone e del Santuario in cui morì Celestino V sono i suoi nipoti, i coniugi Tito ed Emilia Serventi, rispettivamente figli di Elena e Beatrice Longhi (di Gaetano). E’ in corso un decreto reale che si spera concederà a questi ultimi il diritto di portare il nome dei Longhi e di trasmetterlo ai loro minori Ugo ed Enrico. Il proprietario di un sesto lotto è l’avv. Giuseppe Marchetti, figlio di Guglielmina Longhi. La famiglia Longhi ha avuto, attraverso i vari Pontificati, sei guardie nobili, cioè marchese Guglielmo Longhi, marchese Carlo e Longhi marchese Francesco, ammessi nel corpo delle guardie nobili nell’aprile 1804; Longhi marchese Alberto fu guardia nobile nel 1833 e Longhi marchese Giovanni venne ammesso nell’aprile del 1836. E’ sicuro che ve ne sia anche un altro, del quale mi sfugge il nome. Il Castello e La Villa sono ra tenuti con grande cura ed amore nella imperitura e cara memoria di uomini e di cose. Il Santuario di Celestino V, cioè la prigione e la Cappella attigua, sono aperti al pubblico una volta all’anno, la seconda domenica di agosto e il Clero vi si reca con la Croce Capitolare e la reliquia del Santo, seguito in devota e numerosa processione del buon popolo salmodiante. La villa ha conservato l’aspetto alquanto rustico e semplice delle ville patrizie romane. Non è stata turbata quella sua linea di austera signorilità con innovazioni moderne. Questo non desiderano gli attuali proprietari, decisamente conservatori delle memorie della loro antica e nobile famiglia. I marmi rari, di pregevole e squisita fattura greca e romana, attestano, con le loro patine brune, il volgere di parecchi secoli. Una Venere di scalpello greco, appoggiata a un delfino, sovrasta una fontanina ornata in basso di terre cotte, raffiguranti maschere, di alto e raro valore artistico. Due Erme di marmo pario, dovute anch’esse a scalpello greco, raffiguranti la primavera e l’autunno, vigilano il lato esterno dell’ingresso principale e fronteggiano il viale centrale, in fondo al quale si erge una colonna in marmo istoriato, benissimo conservata nella sua integrità e nella sua patina, che attesta la sua epoca, certamente anteriore al XIII secolo. Figure mitologiche, imperatori romani, putti e figure di donne, fanno capolino fra le vecchie mortelle e i vetusti lauri. Sicuro da ogni tragedia venatoria pispiglia il variopinto cardellino tra le folte chiome degli alti pini e fra i complicati rami dei secolari cipressi. In un grigio sarcofago nidifica tranquilla, da anni, tutte le primavere, una leggiadra capinera. La dolcezza e il silenzio del mistico ambiente ricordano i malinconici versi del poeta infelice: Quante immagini un tempo e quante fole Creommi nel pensier l’aspetto vostro Il principe Don Gelasio Caetani, a distanza di circa 700 anni dal suo omonimo antenato, Pontefice Gelasio II, onorò di una sua visita Il Castello nell’agosto del 1927 ed ebbe a rallegrarsi con gli attuali proprietari che la Villa avesse conservato il suo stato semplice e primitivo : L’illustre visitatore rammentava come nel volger dei secoli per parecchie volte i Caetani avevano avuto occasione di dominare e dimorare nella rocca di Fumone, sino ai tempi della prozia, Emilia Caetani Longhi, morta nel 1885. Il turista, percorrendo i viali di cinta dell’ameno giardino pensile, resta ammirato ed estatico dinanzi alla visione grandiosa dell’esteso panorama nel vasto orrizzonte. A ponente : la catena dei Lepini e la vallata del Sacco sino agli acquedotti della campagna romana; a levante, da Frosinone fino al Vesuvio (visibile specialmente di notte, durante i periodi di eruzione) lo sguardo si perde nell’enumerare la moltitudine dei paesi sparsi nelle campagne e a ridosso dei monti circostanti: a Nord la catena degli Ernici con le sue più alte vette, sempre bianche di neve dal dicembre al maggio: la Monna, alta m.1950, il retrostante Pizzo d’Eta, che misura 2027 metri, del quale si scorge soltanto l’estrema vetta; a Nord-ovest la storica Torre Caietani (assai danneggiata dal terremoto che contemporaneamente distrusse Avezzano) fronteggiante la pittoresca Trivigliano, che conserva anch’essa le tracce di trecentesche gesta. Infine la poetica e moderna Fiuggi, fonte di salute e di vita, per chi desidera la rinascita del proprio organismo . Nell’ultimo lembo a Nord-ovest, che ricongiunge gli sguardi all’ampia vallata del Sacco, è la Leonina città di Anagni, la cui fama storica sopravvive anch’essa imperitura. Ora il Castello e la Villa di Fumone costituiscono la dimora estiva degli attuali proprietari e dei loro figlioli; il visitatore vi è accolto col massimo dei riguardi e l’ospite amico vi ritorna con animo lieto Lo stemma dei Longhi è sormontato dall’aquila di Polonia in campo rosso ed è formato, in basso nel primo e terzo quadro, dal leone bruno rampante coronato, sotto fascia verde e oro, in campo argento; nel secondo e nel quarto, la Rocca in campo azzurro, sormontata da una croce d’oro. E’ circondata dal motto : "Longa fides, Longus honor cum sanguine Longo", motto che ricorda le gesta onorifiche ed eroiche delle generazioni passate e ne fa la fede per le generazioni presenti e future. |
Posizione geografica
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